I poeti giocosi

I POETI GIOCOSI: caratteristiche tematiche.

Al di là delle differenze di talento, i poeti giocosi furono quei poeti che rimarono contenuti realistici e concreti e con uno stile medio o comico.
Non in ordine di importanza troviamo Rustico Filippi nato a Firenze tra il 1230 e il 1240 e morto tra il 1291 e il 1300, Cecco Angolieri nato a Siena nel 1260 e morto a Siena nel 1260, Meo de’ Tolomei, Siena 1260- Siena 1310, Folgore da San Gimignano (1270-1332) e Cenne da la Chitarra la cui nascita è difficile da datare, mentre pare sia morto nel 1336 ad Arezzo.
Quest’ultimi impiegarono per esprimere i loro contenuti sempre il sonetto per sua natura colloquiale e meno vincolato ai temi amorosi.
Tutta la produzione dei ‘giocosi’ nacque tra Firenze Siena, Arezzo e Lucca, ma presto fu esportata a Treviso, Perugia, Roma.
Quali furono i loro modelli? Non si tratta di una novità assoluta, i rimatori presero spunto dalla poesia in lingua del sì, che coltivava contemporaneamente sia il filone tragico che quello popolareggiante.
Nello specifico quali furono i contenuti che i ‘giocosi’ trattarono? Senza ombra di dubbio la comicità, ma anche una ribellione che proviene dalla quotidianità, quindi l’esaltazione del gioco, dei piaceri (molto presente in Cecco Angiolieri) del denaro. Finanche un diverso modo di concepire la donna, diverso da quello degli stilnovisti, e in contrapposizione con la lirica cortese.
L’attenzione per il filone comico, nella toscana di fine duecento si conquista un ampio spazio e si emancipa da quella illustre, raggiungendo con Dante il massimo dell’eccellenza.
E il periodo in cui si diffonde lo stilnovo, ma la corrente giocosa non si sviluppa solo per riflesso di quella aulica, ma esiste fra lo stilnovo e i giocosi un rapporto dialettico.
L’esempio è il motivo ricorrente della donna come porta diaboli , concentrato di tutti i vizi e gli inganni, o alla satira sulla turpitudine fisica delle vecchie, e sull’insolenza, la sciatteria, la prepotenza e l’infedeltà delle mogli. E’ evidente la netta contrapposizione tra questo modello femminile e quello proposto dalla poesia cortese, che culmina nell’immagine della donna angelo.
Una bella riflessione appare quella fatta da alcuni filologi contemporanei, ovvero il modello femminile dei ‘giocosi’ anziché evocato per antitesi al modello femminile stilnovistico, è un modello che gli preesiste, che gli si affianca.
Diversa poi, nelle due correnti la qualità del rapporto amoroso: tutto spirituale e ideale, basato sulla sofferenza nell’etica cortese; tutto fisico e sensuale, appagante, goduto con disinvoltura nell’esperienza comica.
Le due rappresentazioni dell’amore coesistono di fatto anche all’interno della lirica di registro ‘alto’
Dell’amore sensuale e gioioso offre cospicui esempi anche la poesia goliardica, con la quale i giocosi condividono parecchi e ben noti topoi:
– invettiva contro l’ostilità della Fortuna
– celebrazione del denaro
– esecrazione della povertà

Tutti questi motivi ricorrono nella poetica di Cecco Angiolieri. In Cecco troviamo infatti, il lamento sull’indigenza che si collega all’invettiva contro il padre, e dove trova voce l’infelice storia d’amore con Becchina.
Cecco di sé ci fornisce un ritratto di poeta ribelle, dall’esistenza sregolata, che i pochi documenti rimasti su di lui sembrano curiosamente convalidare.
Ancora su Angolieri, attorno al poeta si affollano personaggi del mondo cittadino, popolani e borghesi, attori tratti talora di animate scene di vita quotidiana, di brevi storie che sono vere e proprie novelle. Al genere novellistico appartengono movenze e motivi narrativi, così come certe descrizioni caricaturali, o l’uso dei soprannomi, o ancora a livello formale, la propensione per il dialogo, la sintassi colloquiale, il lessico corposo, le aperture dialettali. E come nelle novelle, in particolare nel Decameron, anche qui l’attenzione per la realtà concreta non può limitarsi gli aspetti meno nobili, ma più comuni dei sentimenti, della realtà e della vita sociale, e deve anche contemplare il modo di vivere più raffinato e cortese.
La produzione di Cecco Angiolieri consta di 128 sonetti, sulle cui tematiche si potrebbe dibattere a lungo ma che grazie al lavoro filologico ed incessante di pochi studiosi ormai sono note:
– il gioco
– la passione per il vino
– la taverna
– lo sviscerato e tribolato amore per Becchina
Che tipo di poesia ne deriva? Come abbiamo già accennato in generale per i poeti comico-realistici alcuni tratti sono più marcati nel poeta senese. Innazitutto va esplicitato – ed è differenza molto importante a livello metrico-stilistico – che a differenza del suo gruppo egli fa anche uso della parodia.
Vi è poi il mondo popolare, quello dei mercanti, degli artigiani, vi è il mondo reale insomma, quel mondo che con tanta parsimonia aveva cercato di descrivere Boccaccio. E proprio Boccaccio lo inserisce nella quarta novella della nona giornata.
I personaggi che Folgore fa muovere fondendo ispirazione realistica e gusto aristocratico, hanno si uno sfondo idilliaco degli svaghi (giochi e conviti), ma racconta anche scene di caccia. In questo rimatore l’attenuazione del realismo e della corposità, rispetto allo standard della scuola, emerge grazie alla produzione di circa 32 sonetti scritti tra il 1308 e il 1316, quelli più famosi sono le due corone.
Postilla: per quanto riguarda le date, non si ha mai la certezza in quanto si tratta di documenti di circa ottocento anni fa, sicché i problemi che ne conseguono nell’individuazione delle date sono molteplici, o meglio ancora tentare di risalire attraverso due criteri portanti della filologia: quello meccanico-probalistico e quello linguistico – formale non è mai cosa semplice, e pochi sono i filologi che riescono a compiere tali studi.

Rustico Filippi: analisi e commento del sonetto “ A voi che ve ne andaste per paura”

Oi dolce mio marito Aldodrandino,
rimanda ormai il farso suo a Piletto,
ch’egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n’è detto.
E no star tra la gente a capo chino,
ché non se’ bozza, e fòtine disdetto;
ma sì come amorevole vicino
co noi venne a dormir nel nostro letto.
Rimanda il farso ormai, più no il tenere,
ch’è mai non ci verrà oltre tua voglia,
poi che n’ha conosciuto il tuo volore.
Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare, anzi tacerw:
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia.

Si tratta di un sonetto con schema rimatico ABAB; ABAB; CDC;DCD.
E’ una donna che parla in questo sonetto, una donna che parla al suo marito. Si tratta di Aldobrandino. Aldobrandino dovrebbe essere nella realtà il guelfo di Bellincione, mentre per ciò che concerne Piletto al verso secondo, si dovrebbe trattare di un notaio e giudice fiorentino.
Nel sonetto si parla di un tradimento o di un presunto tradimento della donna al marito, tale Aldobrandino. La donna cerca di calmarlo, di persuaderlo a non dubitare di lei. Nei primi quattro versi esorta proprio Aldobrandino di rimandare il “farso” (una sorta di corpetto da indossare sopra la camicia e che non si toglieva se non per spogliarsi, dimenticato in casa di Aldobrandin dall’amante della moglie, evidentemente dopo un incontro amoroso e una partenza frettolosa) a Piletto in quanto non è stato lui a compiere il misfatto. Da notare al verso 3 le due parole “cortese “ e “fino” sono termini chiave del lessico trobadorico e della lirica amorosa delle origini.
Gli dice di non vergognarsi quando si trova in mezzo alla gente, perché non è un cornuto, e lei smentirà sempre questo fatto. Il messaggio è esplicito nei versi 5 e 6: “ e non star tra la gente a capo chino/ ché non se’ bozza, e fòtine disdetto”.
Nei più tragicomici dei sonetti, la donna dice ad Aldobrandino che semmai Piletto fosse entrato in camera lo avrebbe fatto come un vicino affezionato.
In effetti nel sonetto sono presenti molti doppi sensi, e Rustico Filippi gioca proprio su questa ambivalenza, ambiguità sai nei costrutti, nel lessico, che nel mero messaggio dei contenuti. Un messaggio rivolto al marito, e un messaggio rivolto al lettore. E proprio in questa duplice funzione del sonetto che si riversa tutta la comicità del sonetto, perché il lettore deve per quanto abbastanza esplicito afferrare come siano andate le cose effettivamente.
E infatti nella terza strofa (prima terzina) se da una parte la donna continua la sua opera di persuasione cercando di far consegnare il farsetto dato che Piletto ha capito la volontà di Aldobrandino.
Il picco tragicomico è raggiunto nell’ultima terzina quando la donna dice al marito che non avrebbe dovuto sollevare questo scandalo, ma nel contempo gli dice che Piletto non si spoglierà più nel loro letto.
A ben pensarci sembra una novella decameroniana, dove ogni cosa, ogni elemento, ogni dettaglio concorre a mettere in scena la comicità. In linea con la poesia comico-realistica Rustico Filippi non esita a mettere in scena elementi reali quali;il letto nunziale, il “farso” dimenticato da Piletto, lo spogliarsi.

Cecco Angiolieri: analisi e commento del sonetto: “la mia malinconia è tanta e tale”.

La mia malinconia è tanta e tale,
ch’i’ non discredo che, segli ‘l sapesse
un che mi fosse nemico mortale,
che di me di pieta[de] non piangesse.

Quella, per cu’ maven, poco ne cale:
ché mmi potrebbe, sed ella volesse
guarir ‘n punto di tutto ‘l mie male
sed ella pur << I’ t’odio>> mi dicesse.

Ma quest’è la risposta c’ho da llei:
ched ella no mmi vòl né mal né bene,
e ched i’ vad’ a ffar li fatti miei,

ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ e pene,
men ch’una paglia che lle va tra ‘piei
Mal grado n’abbi Amor, ch’a lle’ mi diène

Si tratta di uno schema rimatico ABAB, ABAB; CDC, DCD.
Il mio pessimo umore, “malinconia”, (trattasi di un termine raro nella produzione illustre, assente in Petrarca, frequente invece tra i giocosi, che indica insoddisfazione. Meglio melanconia come termine di origine greca sta ad indicare umore nero: nero come la bile presente nel fegato a cui si faceva risalire il mancato piacere) dice Cecco, è cosi grande che se il mio peggior nemico lo capirebbe, avrebbe pietà di me.
Invoca ancora il Cecco, che l’amata si occupi del suo dolore, delle sue pene, ma lei risponde che non gli interessa se Cecco prova gioia o pena, le interessa meno di una pagliuzza che le va tra i piedi. Lei – continua Angolieri – non mi vuole né bene né male.
Il sonetto termine con l’imprecazione, con la bestemmia: sia maledetto l’amore che mi rese succube di lei.
Ancora una volta è presente in questo sonetto un topos ricorrente della poesia lirico-cortese: la sofferenza del poeta amante è generata dall’indifferenza della donna che non prende in minima considerazione l’amore che Angolieri descrive.

I poeti siculo-toscani

I poeti siculo-toscani: poetica e tematiche dei componimenti letterari.

Innanzitutto va chiarito perché poeti siculo-toscani? Si trattava di letterati borghesi in prevalenza toscani: arezzini, lucchesi, pisani, senesi e ovviamente fiorentini. Più che altro sono considerati come un gruppo di rimatori di transizione fra i ‘siciliani’ e gli ‘stilnovisti’, ma tutti vicini all’esperienza multiculturale di Federico II e del suo regno.
La loro attività poetica testimonia una lingua in continua evoluzione. Le molteplici innovazioni metriche e stilistiche lo confermano. La lingua dei poeti siculo toscani si è detto che è artificiale ovvero costruita grazie al riuso, non di rado ironistico e parodistico, di formule ormai sclerotizzate della tradizione provenzale e francese.
Chi sono i protagonisti di questa poetica? Sicuramente non può essere dimenticato Guittone D’Arezzo. (1235-1294) Ne fu il massimo esponente soprattutto nell’ambito della lirica cortese e morale. Grazie a Guittone tra l’altro è possibile capire alcuni componimenti letterari danteschi.
Come opera Guittone D’Arezzo? Fu acuto conoscitore della tradizione gallo-romanza, inoltre forte e la sua denuncia per quegli ideali cortesi. per cui se ne distacca cercandola di superare con l’arma dell’ironia.
Lo stile del poeta è si potrebbe dire aspro e sottile, e spesso converge nell’esaltazione mistica, tra l’altro evidente dopo la ‘conversione’ del 1265.
Sul piano politico diviene il primo e più coerente sostenitore della supremazia morale e culturale di Firenze nella toscana del duecento.
Postilla: è noto l’accanimento di Dante verso l’arentino. L’avversione può essere spiegata perché Guittone restò un ingombrante modello da emulare, della cui influenza egli non riuscì mai a liberarsene completamente. La produzione del rimatore d’arezzo è sterminata e comprende cinquanta canzoni, duecentocinquanta sonetti e trentasei lettere in prosa poetica.
Come letterato, Brunetto Latini, morto alla fine del duecento (1294) fu certamente fra i maggiori retori e prosatori del suo tempo. La sua opera in versi non si limita al Tesoretto o al Favolello ma comprende anche una canzonetta di gusto arcaico e sicilianeggiante.
Molto particolare invece è la storia di Compiuta Donzella. La voce ostentatamente femminile nascosta sotto lo pseudonimo di Compiuta Donzella creò scandalo nella toscana duecentesca. Molti rimatori fiorentini, da Mastro Torrigiano a Rinuccino, si sentirono in dovere di inviarle dei sonetti. Uno di questi componimenti addirittura è attribuito a Guido Guinizzelli. Non si può escludere affermano molti studiosi che un rimatore fiorentino abbia voluto burlarsi di loro, assumendo i panni di una donna.
Comunque sia Compiuta Donzella fu abilissima rimatrice e scrittrice di versi, esperta di retorica, e con un forte gusto per l’ironia.
Per quanto riguarda la produzione, Chiaro Davanzati morto nel 1303 non è certo inferiore ai suoi predecessori, ma anche per ciò che concerne i risultati poetici e la cultura letteraria. Egli costituisce un innegabile punto di riferimento stilistico per molti rimatori del trecento fiorentino, anche per gli stilnovisti. Chiaro Davanzati contribuì a svincolare la canzone dall’imperante modello provenzale, privilegiando l’uso della stanza di tutti endecasillabi.
Molto importante fu anche Monte Andrea nato a Firenze. La sua poetica costituisce il punto d’arrivo della sperimentazione prestilnovistica, e comprende undici canzoni e oltre un centinaio di sonetti. Trae ispirazione da Guittone sul piano delle scelte stilistiche.
Per ciò che concerne il pisano Panuccio dal Bagno, fu il più fecondo rimatore pisano. Suo maestro anche per lui fu Guittone d’Arezzo, di cui però non condivise le scelte politiche né l’intransigenza morale. La sua produzione poetica e caratterizzata da dodici canzoni, e di un totale di ventidue componimenti.
Ritornando a Guittone d’Arezzo è opportuno dire che fu personaggio alquanto problematico. Sappiamo che Guittone d’arezzo fra il 1261 e il 1266 diviene “Fra Guittone” ed è con molta probabilità l’inventore della ballata sacra. Di lui si hanno a disposizione anche delle laude. Tuttavia il patrimonio letterario che da lui abbiamo ereditato consta di 50 canzoni e 251 sonetti.
Proprio su Guittone si parla di una prima fase e di una seconda fase. Una prima fase che è quella antecedente alla conversione, in totale disaccordo con la morale cristiana, emerge forte il sarcasmo dei suoi componimenti, nonché diventa aspra la denuncia per l’amor cortese.
Dopo la conversione, è forte nella sua letteratura l’esigenza di abbandonare i piaceri terreni, e di elevarsi alla spiritualità. La polemica morale diviene sempre più forte, ma cambia anche il suo pubblico.

Guittone d’Arezzo: analisi e commento del sonetto: “ Ben saccio de vertà che ‘l meo trovare”

Ben saccio de vertà che ‘l meo trovare
val poco, e à ragion de men valere
poi ch’eo non posso in quel loco intrare
ch’adorna l’om de gioia e de savere

E non departo d’a la porta stare
Pregando che, per amor Deo, mi deggia aprere:
allora alcuna voce audir me pare
dicendome ch’eo sia di bon sofrere

Ed eo sofert’ò tanto lungamente
che devisa’ de me tutto piacere
e tutto ciò ched era in me valente:
perch’eo rechiamo e chero lo savere

di ciascun om ch’è prode e canoscente
e l’aiuto del meo grande spiacere

Si tratta di uno sonetto di Guittone d’Arezzo con schema rimatico ABAB, ABAB; CBC, BCB. Abbiamo sia rime derivative che rime ricche.
La rima ricca è quella rima in cui si ha l’identità di uno o più suoni precedenti l’ultima vocale tonica (sentero/altero). Molto usata nella poesia francese. Fa parte di quel gruppo di RIME TECNICHE, ovvero le rime genericamente arricchite da un’estensione all’indietro del segmento identico prima dell’ultima vocale tonica del verso (rima ricca) o complicate da forme aggiuntive di relazione fra le parole che rimano (rima grammaticale ed equivoca) o da alterazione dell’accento e della divisione delle parole (rima composta ed equivoca contraffatta).
La rima derivativa è quella fra due parole di cui una deriva dall’altra: DEGNA/DISDEGNA; QUESTE MEMBRA/TI RIMEMBRA.

In questo sonetto ancora rilevante è il topos del canto d’amore. Insistente infatti il fatto che Guittone voglia entrare nella camera da letto di Madonna, che abbiamo già visto che vuol dire “mia donna”. Nel terzo verso infatti Guittone dice “poi ch’eo non posso in quel loco entrare”. L’esplicito riferimento alla camera da letto della sua donna.
Il tema dell’amore è molto forte in questo sonetto, quasi spasmodico, ricercato con tutte le forze, attraverso il poetare del rimatore che non esita a voler sottostostare al giogo che l’amore comporta per entrare in quel mondo di passioni che adorna “l’om de gioia e de savere”. Il primo verso è interessantissimo a riprova di quanto detto, il poeta dice che il suo poetare vale poco, e si chiede a cosa possa servire se non può entrare in quella stanza? E’ evidente come il suo rimare debba servire ad entrare nelle grazie della sua donna.
Ricorrente inoltre il tema della sofferenza e della solitudine, dove Guittone dice di rimanere accanto alla porta, e supplicherà la sua donna finché non lo farà entrare: “ e non departo d’à la porta stare, pregando che, per amor Deo, mi deggia aprere”.
Più esplicito quando dice di aver sopportato a lungo la sua sofferenza, la quale ha allontanato da lui ogni valore ed ogni piacere, pertanto invoca l’uomo affinché lo soccorra per la sofferenza che sta provando.

Compiuta Donzella: analisi e commento del sonetto “A la stagion che ‘l mondo foglia e flora”

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut’ i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli ausceletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trages’ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abandon marimenti e pianti.

Ca lo mio padre m’à messa ‘n erore
e tenetemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,
ed io di ciò non ò disio né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tute l’ore;
però non mi ralegra fior ne foglia.

Si tratta di un un sonetto a schema bipartito ABAB, ABAB, CDC,DCD.
Secondo degli studi effettuati, l’armonia del sonetto dipende da una buona conoscenza delle regole retoriche dell’expolitio “di pensiero”, più o meno scolasticamente applicate. Il componimento si presenta come una sorta di chanson de toìle rovesciata, nella quale all’amor “profano” è preferito quello divino.

Abbiamo già parlato dell’enigmatica storia di Compiuta Donzella, secondo alcuni la prima poetessa italiana a comporre versi in volgare, secondo altri sotto lo pseudonimo di Compiuta Donzella si cela un uomo, difficilmente identificabile.
Il sonetto invece è un sonetto che tratta ancora una volta della tematica dell’amore. In dettaglio, già nel primo verso “ A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora “ dice che nella stagione dove il mondo rinasce, aumenta negli amanti il desiderio di liberarsi alla passione.
Sempre nel primo verso è da notare “ foglia e flora” (mette foglie e fiori). E’ un motivo della poesia trobadorica, che fu ripreso dai siciliani ed è ripetuto in un incipit di maestro Rinuccino.
Evidente nei primi quattro versi la metafora con la primavera, la stagione in cui gli uccelli emettono un canto melodioso.
Così come è evidente come nella seconda quartina il tono del sonetto cambi. Compiuta Donzella esplicita una sorta di paragone tra il suo amore e quello degli amanti, dove la gente, gli amanti migliorati dall’amore ( “la franca gente” ) offrono il proprio contributo all’amore. Di pari passo vi è l’infelicità del rimatore o della rimatrice perché è impossibilitata a seguire il suo amore, la sua passione. Il padre la sta facendo soffrire, l’ha messa in una situazione dolorosa “Ca lo mio padre m’à messa ‘n erore”, e vuole darla in sposa ad un marito che lei non vuole. Anche questo è un topos molto ricorrente. Ne è pieno il Decameron.
Il “messa n’errore” al verso nove (mi ha messa in una situazione dolorosa) è un sintagma caro ai poeti siciliani.

“Già mai non mi riconforto”

Rinaldo d’Aquino: analisi e commento della canzonetta “Già mai non mi riconforto” .

Già mai non mi [ri]conforto
Né mi voglio ralegrare.
Le navi sono giute al porto
e [or] vogliono colare.
Vassene lo più gente
in terra d’oltremare
ed io, lassa dolente,
come deggio fare?

Vassene in altra contrata
e non lo mi manda a dire
ed io rimagno ingannata:
tanti sono li sospire
che mi fan gran guerra
la notte co lo dia,
né ‘n cielo ned in terra
non mi par ch’io sia.

Santus, santus, [santus] Deo,
che ‘n la Vergine venisti,
salva e guarda l’amor meo
poi da me lo dipartisti,
Oit alta potestade
Temuta e dotata,
la mia dolze amistade
ti sia racomandata!
La croce salva la gente
E me face disviare,
la croce mi fa dolente
e non mi val Dio pregare.
Oi croce pelegrina,
perché m’ai si distrutta?
Oimè, lassa, tapina,
ch’i’ ardo e ‘ncendo tut[t]a!

Lo ‘mperadore con pace
tut[t]o mondo mantene
ed a me[ve] guerra face,
ché m’à tolta la mia spene.
Oit alta potestate
temuta e dottata,
la mia dolze amistate
vi sia raccomandata!

Quando la croce pigliao,
certo non lo mi pensai,
quelli che tanto m’amao
ed i’illui tanto amai,
ch’i’ ne fui bat[t]uta
e messa in pregionia
e in celata tenuta
per la vita mia!

Le navi sono a le colle
– In bonor possan andare-
e lo mio amore colle
e la gente che v’à andare.
[Oi] padre criatore,
a porto le conduce
ché vanno a servidore
de la santa croce.
Però ti prego, Dolcetto,
[tu] che sai la pena mia,
che me ne face un sonetto
e mandilo in Soria.
Ch’io non posso abentare
[la] notte né [la] dia:
in terra d’oltremare
sta la vita mia.

Si tratta di una canzonetta di otto strofe, ciascuna di otto versi, forse quadripartiti in piedi e volte. Schema rimatico; ab,ab; cd, cd.
Postilla: la canzonetta sta ad indicare lo stile più facile, l’argomento meno elevato, o gli schemi di versi brevi contrapposti a quelli in cui prevale l’endecasillabo: con questo componimento talvolta lo si usa in generale per indicare la poesia antica. Dal punto di vista metrico, il testo è strofico cioè consta di strofe che contano lo stesso numero di versi dello stesso tipo, nello stesso ordine e con lo stesso schema rimatico.
Ritornando alla canzonetta di Rinaldo d’Aquino, i piedi sono ottonari a rime alterne o alternate, la sirma di tre settenari seguiti da un senario o ancora da un settenario.
Il registro è popolareggiante, inoltre la canzonetta è intessuta di riferimenti storici a Federico II.
Ancora una volta, al centro vi è l’amore per una donna. Questa volta si tratta di una donna il cui uomo deve partire per la crociata in Gerusalemme, la sesta crociata, con a capo Federico II. (1227-1229) Ma questa volta è la donna che parla, è la donna ad esprimere tutte le preoccupazioni, per una guerra che il suo amato dovrà affrontare che la condannerà alla pena, alla prigionia, insomma al dolore, alla solitudine.
Il “già mai non mi riconforto” del primo verso allude proprio alla crociata in Gerusalemme, che si concluderà con la conquista dell’imperatore del santo sepolcro.
La ‘croce’ afferma la donna che è il simbolo della salvezza, a lei le provocherà dolore e tormento. E poi…l’imperatore che è il simbolo della pace a lei gli toglie l’amante.
La donna poi, quando ormai il giovane sta per partire lo lascia in dono a Dio, che lo protegga e non lo faccia soffrire. Ricorrente nei componimenti letterari che abbiamo visto fin d’ora, è il richiamo a Dio, sintomo dell’importanza della religione, e del potere della Chiesa sui cristiani. E’ Dio che toglie e dà la protezione. Il dominio del potere spirituale su quello terreno.
Infine la donna si rivolge ad un giullare e le chiede se possa comporre un canto da inviare al suo amato in Gerusalemme.
Peculiarità tematiche stilistiche e metriche: semplicità della struttura strofica e delle rime; monologo lirico messo in bocca ad una donna; lamento per l’abbandono da parte dell’amante.
Il motivo tradizionale e letterario della partenza per la Terrasanta è oggetto specifico delle “canzoni di crociata” e quindi del registro cortese.
Anche qui vi è da fare una postilla. Secondo alcuni studiosi i numerosi guasti della tradizione manoscritta impediscono una definizione sicura dello schema metrico, che resta controverso.

“Giosamente canto”

Guido delle Colonne: analisi e commento di “Giosamente canto”

Gioiosamente canto
e vivo in allegranza,
ca per la vostr’ amanza,
madonna, gran gioi sento.
S’eo travagliai cotanto,
or aggio riposanza:
ben aia disïanza
che vene a compimento;
ca tutto mal talento – torna in gioi,
quandunqua l’allegranza ven dipoi;
und’eo m’allegro di grande ardimento:
un giorno vene, che val più di cento.

Ben passa rose e fiore
la vostra fresca cera,
lucente più che spera;
e la bocca aulitosa
più rende aulente aulore
che non fa d’una fera
c’ha nome la pantera,
che ‘n India nasce ed usa.
Sovr’ogn’agua, amorosa — donna, sete
Fontana che m’ha tolto qualunque sete,
per ch’eo son vostro più leale e fino
che non è al suo signor l’assesino.

Come fontana piena
che spande tutta quanta,
così le meo cor canta
sì fortemente abonda
de la gran gioi che mena,
per voi, madonna, spanta,
che certamente è tanta,
non ha dove s’asconda
E più c’augello in fronda — so’ gioioso,
e bene posso cantare più amoroso
che non canta gia mai null’altro amante
uso di bene amare trapassante.

Ben mi deggio allegrare
d’Amor che ‘mprimamente
ristrinse la mia mente
d’amar voi donna fina;
ma più deggio laudare
voi, donna, caunoscente,
donde lo meo cor sente
la gioi che mai non fina.
Ca se tutta Messina – fusse mia,
senza voi, donna, nente mi saria:
quando con voi a sol mi sto, avenente,
ogn’altra gioi mi pare che sia nente.

La vostra gran bieltate
m’ha fatto, donna, amare
e lo vostro ben fare
m’ha fatto cantadore;
ca, s’eo canto la state,
quando la fiore apare,
non poria ubriare
di cantar la fred[d]dore.
Così mi tene Amore — corgaudente,
ché voi siete la mia donna valente.
Sollazzo e gioco mai non viene mino:
così v’adoro como servo e ‘nchino.

Si tratta di una canzone di cinque stanze, ognuna di dodici versi, divise in due piedi identici di settenari e sirma di endecasillabi, concatenata tramite una rima interna; nella prima e nella quarta stanza una di queste rime è condivisa da fronte e sirma: abbc, abbc; (c) DDEE. Sono presenti rime siciliane al versi 13-17 e 16-20.
Per rima siciliana s’intende quella rima di “i” con “e” chiusa e di “u” con “o” chiusa.
Dal punto di vista lessicale: al vv3 amanza: “amore” grazie alla diffusione del suffisso –anza.
Vv.4 “gioi”: (gioia, felicità) si tratta di un gallicismo. Vv.9: “ca” (che) è un meridionalismo. Sempre nel v.9 mal talento (malumore) è un gallicismo. Vv.14” cera” (viso) si tratta anch’esso di un gallicismo. Vv 42 “caunoscente” (saggia) trattasi di un provenzalismo.
In questa canzone di Guido delle Colonne l’amore è finalmente corrisposto, evidente è la gioia del rimatore (peraltro giudice), ed è evidente e sottolineato dalla parola “gioia” felicità che ricorre in ogni stanza. Come abbiamo spiegato nel discorso sui poeti siciliani, la canzone è soggetta a variazione ed uso di ogni poeta, sicché possono variare il numero delle stanze.
Il rimatore dice di cantare gioiosamente e allegramente perché l’amore lo ha ritemprato, lo ha fatto rinascere, dopo aver sopportato le peggiori pene, è arrivato l’agognato premio, e il poeta non esita a cantarlo.
Molte le metafore a sfondo naturalistico evidenti ad esempio nella seconda stanza : “ come fontana piena/che spande tutta quanta/ così lo meo cor canta/ si fortemente abonda/ de la gran gioi che mena/ per voi, madonna, spanta. Ovvero il mio amore sgorga come una fontana, ed è pieno della vostra gioia, sicché così grande è che non posso nasconderlo.
Al verso 24, notiamo “assessino”. Si tratta molto probabilmente di un membro della feroce setta degli ismailiti, musulmani eterodossi, seguaci eterodossi del Veglio della montagna, i cui ordini eseguivano con fanatica obbedienza,e, si riteneva, sotto l’effetto dell’hashish.
Ancora molto presenti sono le metafore naturalistiche dove il rimatore paragona la sua gioia a quella di un uccello fra gli alberi.
L’elogio della bellezza come in Giacomo da Lentini è ricorrente, nonché ricorrente è l’elogio all’amore.

Madonna à’n sé vertute

Giacomo da Lentini: analisi e commento di “Madonna à’n sé vertute”

Madonna à n’sé vertute con valore
Piu che nul’altra gemma preziosa:
che isguardando mi tolse lo core,
cotant’è di natura vertudiosa.
Più luce sua beltate e dà sprendore
che non fa ‘l sole né null’autra cosa;
de tut[t] l’autre ell’è sovran’è frore,
che nulla apareggiare a lei non osa
Di nulla cosa non à mancamento,
né fu ned è né non sera sua pare,
né ‘n cui si trovi tanto complimento;
e credo ben, se Dio l’avesse a fare,
non vi metrebbe al su’ntendimento
che la potesse simile formare

Si tratta di un sonetto con schema rimatico ABAB,ABAB, CDC,DCD.
La tematica è ancora una volta l’amore, o meglio è l’amore, per la sua amata (MADONNA traduzione dal latino mia signore). Giacomo dice che la sua amata ha dentro di sé la potenza e un valore superiore a qualsiasi pietra preziosa. Le proprietà magiche e terapeutiche delle pietre sono oggetto nel Medioevo di specifiche e diffuse trattazioni pseudo-scientifiche.
Con il suo sguardo – continua Giacomo – che è cosi potente (o potente per natura) mi ha trafitto il cuore.
Poi passa all’elogio della sua bellezza dice che risplende più del sole o di qualsiasi altra cosa.
E’ una donna che rasenta la perfezione quella di Giacomo da Lentini, una donna che se Dio la dovesse fare non sarebbe riuscita a crearla simile a lei…
Come possiamo ben vedere dal sonetto, trattasi di una tematica tipica della scuola siciliana, e in particolare di Giacomo da Lentini che battè molto sul sonetto per ciò che concerne i suoi componimenti. La donna è l’oggetto del sonetto. Ma più che altro è il modello di donna ad essere oggetto del sonetto. L’elogio spasmodico del binomio donna-perfezione è una caratteristica dei poeti federiciani. Addirittura in questo sonetto, le lodi dell’amata e della sua perfezione e superiorità sulle altre donne acquistano qui toni e impiegano poi toni peculiari dello stilnovo.
Altra cosa: sicuramente non si tratta del più famoso dei sonetti di Giacomo da Lentini, rispetto sia ad Io m’aggio posto in core a Dio servire, o al famosissimo Chi non avesse mai veduto foco, tuttavia, però, si tratta di uno dei sonetti che si spinge, o meglio che cerca di superare i confini della scuola siciliana. Si notano similitudini con Fresca rosa novella di Guido Cavalcanti.