Analisi e commento de L’Assiuolo di Giovanni Pascoli. (Da Myricae)

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

Dov’era la luna dal momento che (chè) il cielo nuotava/era immerso (notava: la luna c’è e non si vede ma inonda di luce il cielo in un diafano chiarore) in un’alba perlacea (alba di perla = metafora, il cielo assomiglia ad un alba di perla, di un chiarore opalescente) e pareva che il mandorlo e il melo si ergessero più in alto per vederla meglio [la luna].Si scorgevano lampi silenziosi [per la lontananza] (soffi di lampi = sinestesia) nel nero delle nubi lontane; si sentiva una voce dai campi: chiù (riprende il suono naturale dell’assiuolo, perciò forma una onomatopea pura)…
Le stelle brillavano rare nella nebbia simile al latte (nebbia di latte: metafora): sentivo (nei primi due versi è usato in senso fisico, dato che si riferisce a degli elementi, nel terzo è usato in senso psicologico, perché esprime un sentimento che il poeta prova) il cullare del mare, il fruscio (fru fru = onomatopea) tra i cespugli (fratte), sentivo nel cuore un trasalimento (sussulto per un’emozione), come il lontano ricordo (com’eco) di un antico grido per un dolore (d’un grido che fu = è una similitudine, il poeta paragona il singulto (singhiozzo) alla voce ad un grido che gli evocava un dolore lontano) risuonava lontano il singhiozzo soffocato: chiù…
Su tutte le cime degli alberi illuminate dalla luna (lucide vette) soffiava un vento leggero (sospiro di vento: dà l’idea dell’ansia del poeta). Le cavallette, scuotevano finissimi sistri d’argento (metafora – il Poeta immagina che siano le cavallette, che producono un suono simile, a scuotere i sistri, ovvero antichi strumenti musicali utilizzati dagli egiziani nelle cerimonie sacre, che prometteva la resurrezione dopo la morte, costituiti da sottili lamine metalliche che venivano percosse); un tintinnio che sembra picchiare a porte invisibili, che forse non si apriranno più (tintinni a invisibili porte: che forse non si aprono più? = ovvero le invisibili porte – della morte -, aprendosi, potrebbero spiegare il mistero della vita); e c’era quel pianto di morte : chiù….

Motivo conduttore della lirica è il canto dell’assiuolo nella notte; un grido lamentoso che finisce per condensare ogni altra immagine intorno a un’unica voce di cosmica tristezza, a un’intuizione fondamentale: quella del viver come dolore e fatale precipitare verso la morte, che è il volto stesso indecifrabile dell’ignoto che pervade la vita. Allo stesso modo, la narrazione non segue una successione logica e si organizza su coordinate spazio – temporali diversa da quelle d’una comune esperienza conoscitiva o narrativa. La vicenda esemplata nelle due liriche non sembra avere un ordine, implicito o esplicito, che configuri in forma razionalmente coerente lo svolgimento, ma procede per illuminazioni improvvise, per rapidi intuizioni, per circolari ritorni, attraverso i quali un’esperienza inedita del reale s’intensifica e si approfondisce. Comune alle due liriche è anche la presenza – assenza del personaggio che parla in prima persona. Nella seconda strofa dell’assiuolo il poeta premette il verbo “sentivo” a due notazioni paesistiche e subito dopo all’emergere d’una memoria di dolore che resta, tuttavia, indefinita; nel gelsomino si limita a dire, nel secondo verso, che ciò di cui parla avviene “nell’ora che penso ai miei cari”; in entrambi i casi sembra salire in primo piano un avventura del paesaggio, vissuta dal poeta in quanto fuso con esso o obliato. Tutto questo rende difficile un “riassunto”, o meglio. La verifica d’una compattezza di significato delle due liriche. Tentiamone tuttavia una definizione, cominciando da l’assiuolo. C’è qui un notturno, approfondito da un trascolorante fascino di luce lunare e da un silenzio scandito dal “cullare” del mare e dai fremiti di vita impalpabile tra le fratte; in esso riecheggia il grido dell’assiuolo, che prima è una “voce”, poi un “singuito”, infine un “pianto di morte”. Il paesaggio trascrive in forme oggettive le emozioni del poeta, privandole del loro rilievo individuale, rendendole una coscienza di tutti e di sempre. La voce solinga dell’assiuolo sembra approfondirsi sollecitata dal “coro” degli altri oggetti, restando tuttavia anche’essa impersonale. Lo spazio è quello del tutto indeterminato, d’una notte dove il cielo sfuma nel chiarore indefinito dell’alba lunare e l’ombra dissolve gli oggetti in un palpito ugualmente indefinito: in breve , è uno spazio d’interiorità senza confini, quello in cui il paesaggio finisce per tradursi: un paesaggio remoto e antico, nella sua ritrovata memoria di dolore consustanziato alla vita. E il tempo è immoto; è un’ora indefinita della notte, nella quale il messaggio, quasi un oracolo, costituito dal verso dell’uccello s’illumina in una sequenza di solitudine, dolore, morte. Ma non vi è successione cronologica o logica fra i tre momenti. Essi sono in sostanza uno solo, che si risolve in una dimensione tutta verticale del tempo: approfondendo l’ascolto si scopre dietro un grido una significazione: il dolore e la morte, la loro costante presenza nella vita. Il procedimento, insomma, è analogico: la voce è pianto e senso di morte. E una rete di analogie diffonde per tutta la lirica questa significazione. Ad esempio, il rumore delle cavallette viene analogicamente assimilato ai “finissimi sistri d’argento”; ma i sistri, usati nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto, richiamano, sempre per analogia, il senso della morte: cioè la fanno essere, la tramutano in attualità d’una corrispondenza che diviene coesistenza. E’ questa la forma moderna dell’analogia poetica: le parole con cui il poeta conosce e definisce la realtà, sono frammenti d’un tutto che è fuso con loro e che esse evocano attraverso la loro densità semantica. Le parole, insomma, fanno parte anch’esse del mondo degli oggetti e condividono la trama unitaria di quelle che Baudelaire chiamava “corrispondenze”. La complementarietà fra scavo verbale e scavo del reale, sentito come compito della poesia, è confermata dai primi abbozzi della lirica. Qui il poeta, giunto al quarto verso dell’ultima strofa, abbozzava un paragone naturalistico fra l’intensità del rumore prodotto dalle cavallette e d quello d’una “tarda cicala”. Ma poi corregge: “ma questa non è la poesia, è la spiegazione della poesia. Ci vuole abnegazione”; e propone: “tintinni a invisibili porte?”, che conduce a un’illuminazione risolutiva, riflessa su tutta la lirica. Il Pascoli, cioè, rifiuta qui una poetica naturalistica, e rifiuta anche l’allegorismo in nome d’una poetica simbolistica, aperta al messaggio delle analogie, delle corrispondenze e della reversibilità delle cose.