Le Occasioni (raccolta di poesie) di Eugenio Montale. Struttura e poetica.

Questa seconda raccolta uscì nel 1939, con poesie scritte dopo il 1928, edite solo in parte su riviste, e , cinque, nell’opuscolo intitolato La casa dei doganieri a latri versi(1931), pubblicato in occasione della vincita d’un premio letterario con la poesia così intitolata. La seconda edizione (1940) fissò in 53 il numero delle liriche. Il libro, avverte Montale, era fondato sulla poetica, già tuttavia presente negli Ossi, secondo la quale si doveva “esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”, secondo una personale interpretazione dell’idea del “correlativo oggettivo”” del poeta anglo-americano T.S. Eliot: d’una poesia, cioè, che superasse ogni effusione, ogni culto dell’io, per ritrovare i valori radicati nell’oggetto, in una realtà che conferisse loro carattere universale. Ma non solo di valori si trattava, bensì anche delle elementari scoperte del vivere. In tal senso, a Montale, che rivendica di essere giunto a questa poetica per vie personali, anche se poi la formulò con maggior rigore dietro la suggestione eliotiana, un insegnamento poteva essere venuto dal Pascoli. Negli Ossi di Seppia emozioni e stati d’animo divenivano il supporto di rari momenti di rivelazione; ora invece, il silenzio totale sull’occasione psicologica lascia il campo all’oggetto nella sua assolutezza, come fonte d’una verità nascosta nella struttura profonda del reale. In tal modo, la poesia, se rimane una rivelazione problematica e parziale, non rinuncia al tentativo di fondare una consapevolezza intellettuale. Distinguendosi dagli ermetici che, a suo avviso, perseguivano un ideale di poesia pura come “giuoco di suggestioni sonore”, Montale presentava la propria lirica “ come un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli”. Questo comporta, peraltro, un’oscurità dei testi, connessa al fatto che l’”occasione” è presentata come intuizione dell’insondabilità della vita. Tale oscurità rende difficile il libro. Ma l’esaltazione della poesia – un motivo, s’è visto della cultura letteraria proto novecentesca – non conduce a prospettive demiurgiche o estetizzanti in senso dannunziano, nonostante il suo evidente carattere aristocratico. La storia entra nel libro, sia quella di tutti, sia quella personale; e questa è una vicenda d’amore che si carica di profonde significazioni. Un nuovo protagonista acquista consistenza, dopo le più sporadiche apparizioni degli Ossi, ed è la donna; Clizia, soprattutto, donna reale e, insieme, simbolo, presentata come figura di salvatrice, o angelo visitatore, in un mondo di avvilente psuedo-civiltà di massa, dominato da sanguinose dittature e fatalmente avviato verso la guerra. Questa figura avrà ulteriore sviluppo nel libro seguente, dove rivelerà il suo significato pieno, di ansia di riscatto non solo personale, ma anche del mondo depravato. Nelle Occasioni è soprattutto una promessa di salvezza per l’autore, che però già avverte, in liriche come Notizie dall’Amiata, il collegamento fra il proprio dramma personale e quello storico. Altre donne compaiono in questo libro a cominciare da Annetta, presente in Incontro. Queste figure lasciano trasparire vicende biografiche diverse, non facili, tuttavia, da decifrare, proprio per la poetica del correlativo oggettivo; ma la donna conta soprattutto come occasione di approfondimento, da parte del poeta, delle proprie ragioni esistenziali e come colloquio, o meglio, possibilità di colloquio, con l’Altro. Con questa maiuscola non si vuole indicare la possibilità o il vagheggiamento d’un approdo religioso, ma la volontà di ritrovare, attraverso l’amore, una via d’uscita della solitudine e incomunicabilità dell’io, e, mediatamente, dei valori che salvino la vita, del singolo e di tutti, dalla violenza, dalla guerra, da un crollo di civiltà, e anche dal non-senso della vicenda quotidiana mistificata che l’uomo moderno è costretto a vivere in una società che rifiuta non soltanto il culto, ma il senso stesso dei valori. Nel mito di Clizia-amore Montale rinnovava quello delle origini della tradizione letteraria europea. Era la sua risposta, fragile ma invitta, a un’epoca di degradazione, e culminerà in un idea della poesia come testimonianza di dignità e intelligenza, di misura etica individuale nella quale e mediante la quale l’individuo si oppone nella miseria spirituale dell’attuale società.

Analisi, parafrasi e commento de “La casa dei doganieri” di Eugenio Montale (da Le Occasioni)

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera,
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Dettagliata analisi testuale

1. Tu: la donna amata, conosciuta da Montale a Monterosso, in villeggiatura, durante la prima giovinezza, e morta poi, ancor giovane, nel 1956. Il poeta la identificò col nome di Annetta. La casa dei doganieri esisté realmente a Monterosso, ma era già allora distrutta.
3-5. desolata: l’aggettivo, fortemente scandito nel verso, soffonda la casa della dolorosa nostalgia del poeta. in cui….irrequieto: in cui la donna v’entrò, coi suoi pensieri irrequieti. Non è facile capire se si tratta di entrata vera o avvenuta solo nel pensiero, cosa peraltro più probabile.
6-7. Libeccio: vento di sud-ovest – la casa del ricordo ora non è più che un insieme di muraglia vecchia, un presente di squallore in cui a stento il poeta ritrova un’eco del riso lieto della donna.
8-9. non c’è più una direzione del vivere. Le intenzioni, cioè, la volontà consapevole, vengono dissolte da una casualità cieca, anch’essa priva di ogni logica interna.
10. altro tempo. È uno stilema leopardiano: altro tempo dunque, altre vicende frastornano la memoria della donna, l’allontanamento dalla casa, dal ricordo di essa. L’espressione può alludere alla morte della donna; ma anche, e comunque, al distacco incolmabile di persone chiuse di nuovo nel’incomunicabilità che l’amore aveva fatto sperare di poter aprire.
11. un….s’addipana: un filo, prima sdipanato, ora di nuovo s’ingarbuglia. E’ il filo del ricordo, ma diviene anche, pensando a ciò che l’amore avrebbe portato con sé, una direzione nel caos degli eventi. Ricorda il mito di Teseo che riuscì ad evadere dal labirinto inestricabile fatto costruire da Minosse sdipanando un filo custodito all’altra estremità da Arianna.
12-16. Ne…capo: il poeta tiene ancora un capo di quel filo, come Teseo nel labirinto, ma senza più la rispondenza salvifica dell’altro capo, fuori di esso, meta sicura di ritorno. Così la banderuola di metallo, posta sul tetto a rivelare la direzione del vento, gira senza pietà. L’affumicata vuol forse alludere alla consunzione del ricordo nel tempo. ma….oscurità: anche la donna, dunque, è come il poeta, sola; nel buio di questa sera non se ne avverte più neppure il respiro.
17-20. per un istante ritorna la memoria della volontà d’allora di uscire della catena deterministica di fatti in autentici che è il vivere: di ritrovare un varco, un punto di fuga. E’ un idea suscitata dall’orizzonte remoto del mare e dal balenare delle luci delle petroliere, che sembrano una promessa di luce ampia e chiara. Ma il ripullulare sempre uguale dell’onda sul rialzo a precipizio sul mare riconduce il senso del tempo come succedersi monotono e uguale, dissipa la speranza del varco.
21-22. la donna non può più dunque ricordare quella casa, viva soltanto nella sera che il poeta dice mia, perché è l’immagine della sua solitudine e del suo declino esistenziale. Ed io….resta: parole variamente interpretate. Per il Marchese “non so chi muoia veramente, chi va, nel mondo illusorio dei fenomeni”. In tal caso, bisogna però sottintendere che ormai il poeta concepisce il varco del v.19 come liberazione dalla vita e non nella vita. Ma potrebbe anche significare la constatazione del fallimento, allora e ora, di quel colloquio, di quell’apertura all’altro, che diverrebbe proprio per questo anche conoscenza compiuta di sé, un uscita dall’isolamento sterile d’una vita che non sa viversi. Tale constatazione comporta la perplessità del poeta, che non sa, non conosce più chi si disparte, ma neppure chi resta.

Breve commento

Un ricordo d’amore perduto, l’elegia del passato che non ritorna: questo è il primo tema della lirica. Rivedendo la casa dei doganieri, sul mare, il poeta pensa a una sera lontana in cui vi sostò con l’amata. Vorrebbe rivivere quel tempo, ma è impossibile: “un altro tempo” occupa ora la mente di lei, ed egli può soltanto protendersi verso quella sera lontana con nostalgia smarrita. La vicenda diventa emblema d’una realtà più profonda. Montale non rievoca qui una concreta vicenda d’amore, ma l’ansia che ebbe un giorno – e di essa l’amore poteva essere appagamento, o “occasione” di adempimento totale – di liberarsi dalla ruota del destino che vanifica la vita in un giro d’ore, di atti uguali, inutili, consunti; di ritrovare, insomma, “il varco”: una via di fuga che gli consentisse di raggiungere un vivere libero, autentico. Ma egli non né a recuperare l’immagine operante di quell’amore nella propria coscienza, né la continuità coerente d’una propria storia. La memoria gli rivela soltanto l’alterità del nostro io passato, il dissolversi continuo della persona. Più tardi Montale diede un nome a questa donna: Annetta, vagheggiata da lui nella prima giovinezza e considerata qui, secondo alcuni, come morta. Ma che la persona cui qui si allude sia morta o lontana per sempre non muta il messaggio della lirica.

Analisi testuale, commento e parafrasi de i “Bagni di Lucca” di Eugenio Montale (da Le Occasioni)

Fra il tonfo dei marroni
e il gemito del torrente
che uniscono i loro suoni
èsita il cuore.

Precoce inverno che borea
abbrividisce. M’affaccio
sul ciglio che scioglie l’arbore
del giorno nel ghiaccio.

Marmi, rameggi –
e ad uno scrollo giù
foglie a èlice, a freccia,
nel fossato.

Passa l’ultima greggia nella nebbia
del suo fiato.

Metro: due quartine, una terzina, un distico finale. Sequenza libera di versi, dal quadrisillabo all’endecasillabo, con schema libero di rime, peraltro frequenti.

Breve Commento

Questa lirica del 1932 potrebbe essere assunta come un testo emblematico della poetica delle Occasioni. Una visita a una località toscana, in autunno, voci del paesaggio fra le quali esita il cuore: il tonfo dei marroni, il gemito del torrente: un soffio di tramontana che lascia un brivido nell’aria e tramuta l’alba in ghiaccio. Poi foglie che cadono, con diverso volo l’ultimo gregge che passa, forse in cammino di transumanza, e il rapprendersi del suo fiato come nebbia nell’aria. Questo paesaggio usuale ha una valenza metafisica, una potenzialità di allusioni, che la poesia solleva a un complesso significato. Una poesia, come ha specificato il poeta, che contiene i suoi motivi “senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli”, che esprime l’”oggetto” e tace “l’occasione spinta”; una poesia, cioè, dell’oggetto che brucia l’occasione sentimentale, per ritrovarla purificata e condensarla in un ritmo dell’accadere. Così il tonfo dei marroni che ritrova, pur nella caduta, il senso del vigore metamorfico della natura e il gemito del torrente, che diviene correlativo d’una malinconia inscritta nella stagione di trapasso, creano una sospensione nel cuore, un senso del tempo e del declino. Poi c’è un senso d’inverno, di gelo, che impone al paesaggio una fissità di ghiaccio: dischiude l’idea della morte. E questa giunge in quel cadere di foglie; un motivo antico, nella poesia europea, ma qui rinnovato da un ritmo che imprime alla caduta un moto vertiginoso, evita la protesta silenziosa del cuore. Infine un gregge, ma è ultimo, visto come distacco conclusivo e nebbia di dissolvenza. E’ interessante il raffronto proposto dal Martelli col finale della prima stesura, apparsa nel 1933 nella rivista “Italia letteraria”: Marmi, rameggi, e tu/gioventù a capofitto/nel fossato./Passa l’ultimo uomo nella nebbia/ del suo fiato. Basta dire, lasciando al lettore osservazioni puntuali che, nella stesura definitiva, è andato perduto il convenzionale addio alla giovinezza, per lasciar posto a un senso generale del dramma della vita.

Analisi, commento e parafrasi de”Lo sai: debbo riperderti e non posso” di Eugenio Montale (da “Le Occasioni”)

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.

Breve analisi testuale
Metro:due strofe esastiche di endecasillabi e settenari, l’ultimo dei quali è suddiviso in due versi uniti da sinalefe: ma alla fine della prima strofa si ha un quintario. Rare e libere le rime esterne, frequenti le assonanze interne.
2-6. Come….aggiustato: come un tiro ben diretto contro di me, mi sommuove: mi causa turbamento profondo. Ogni aspetto esterno della vita lo turba perché gli fa avvertire più intenso il vuoto che ha nell’animo. spiro salino: sentore salso del mare. straripa: perché fuoriesce dal porto e infonde in Sottoripa un sentore di mesta primavera. oscura primavera: è un ossimoro ed è correlativo oggettivo della situazione d’animo del poeta.
7-8. Paese: il porto. alberature : gli alberi delle navi. a selva: che formano come una selva.
9-10. ronzìo lungo: è il rumore della vita lontana, che, forse per suggestione pasco liana acquista la voce sinistra d’un messaggio do aridità, di morte nella vita.
10-13. il poeta cerca il pegno ora smarrito, il solo che ebbe da lei in grazia, ma invano; e comunque sia anche il ritrovarlo non lo libera dall’inferno della solitudine.

Un distacco, nella vicenda d’amore che si traduce in “inferno”, reso evidente, questo, anzi, per dir così, incarnato nel correlativo oggettivo della città, fra oscura primavera e straziante ronzìo di macchine del porto che attualizza la coscienza d’una lacerazione, d’un vuoto, di un’assenza totale. La lirica è del 1934, una delle più antiche, dunque, dei Mottetti.

Non recidere, forbice, quel volto: analisi, parafrasi e commento. (di Eugenio Montale, da “Le Occasioni”)

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.

Analisi testuale

Metro: due quartine, con tre endecasillabi e un settenario, in quarta sede nella prima, in terza nella seconda, secondo un tipico intreccio montaliano di simmetrie e asimmetrie. Rimano il primo e terzo verso della prima quartina; nessuna nella seconda al proprio interno; sennonché il secondo e il quarto sono in rima con quelli corrispondenti della prima, e tra 1 e 3 e 1 e 4, sempre nella seconda, c’è rima interna.
1. forbice: quella del potatore.
2. che…sfolla: che elimina la folla dei ricordi. Ma sfollare suggerisce anche un declassamento di essi a folla anonima, inconsistente, che si disperde; contro la quale si accampa quello d’amore.
3. in ascolto: il viso pare in attesa d’una parola che lo liberi dal pericolo di dissolvenza che minaccia anche lui come gli altri ricordi.
4. la…sempre: la nebbia, simile alla belletta del v. 8, è il dissolversi di atti, gesti, parole nella memoria, il dissiparsi nel tempo della vita, in un’immagine confusa.
5. il freddo che s’abbatte è il colpo della forbice, o meglio, della fronde che cade; e suggerisce il senso della morte della fronda e d’ogni vita. Svetta: toglie la vetta, la cima dell’acacia.
6. ferita: l’aggettivo produce un “corto circuito”: non è tanto dell’acacia quanto della memoria privata di quel ricordo.
8. prima belletta: il primo fango.

Breve commento

Il senso di questo mottetto (1937) appare “facile”; ma lo è, si vedrà, soltanto in apparenza. Si può parlare, in generale, della difficoltà già riscontrata in “Cigola la carrucola del pozzo”, di mantenersi fedele al ricordo, e cioè al passato dell’impossibilità, per la persona, di consistere in una storia unitaria, e dunque nella propria specifica individualità. Anche qui un ricordo cade, nonostante le preghiere del poeta: la forbice del potatore che priva della sua vetta l’acacia, taglia anche il ricordo d’un volto, getta nell’oblio, diventa figura del tempo come cammino di morte e declino. Ma un esame più attento coglie il testo come incrocio di significazioni, implicite e tuttavia evidenti nelle parole che non sono oggetti statici ma nuclei di energia poetica, per così dire: nodi di suggestioni e corrispondenze. In tal senso la struttura del mottetto è indicativa in modo esemplare della poetica montaliana. Si osservi in primo luogo come la composizione venga distinta in due parti: la prima contiene un’insorgenza lirico-patetica, un tentativo di uscire dalla “nebbia di sempre”; la seconda è descrizione apparentemente oggettiva di un’acacia potata, d’un guscio di cicala che precipita nel fango dell’autunno. I due discorsi sono profondamente connessi. La seconda quartina contiene il “correlativo” oggettivo dell’emozione espressa nella prima, e la scintilla poetica emerge da questo che Montale chiama “corto circuito”: il reagire delle due parti accostate che produce una sospensione della realtà in cui si consuma senza scopo la vita di tutti, e, insieme, la tensione verso un significato. A questo punto occorre ripercorrere il cammino modulato su precisi occasioni-immagini dal testo. E allora la forbice diventa figura del tempo e, insieme, sentimento del tempo come morte, il “grande viso in ascolto” è un atto d’amore e che ora è in attesa d’una parola che vanifichi la peggior morte: l’inautenticità della vita. Il freddo che cala è senso d’autunno e di sgomento, di crollo repentino della persona nell’inconsistenza della vita, nell’incapacità di fare del ricordo azione.