Il Foscolo critico

L’attività critica, prima saltuaria, diventa dominante per il Foscolo negli anni dell’esilio londinese. Conclusa ormai la sua produzione poetica e, in fondo, anche la parte più significativa della sua vita, sembra che egli cerca di ristabilire, indagando criticamente la pagine dei nostri scrittori più grandi, quel colloquio con la poesia che era stato la ragione prima e il conforto della sua esistenza. A questa attività, che egli peraltro sentiva come del tutto minore, era anche costretto dalle necessità economiche. I saggi verranno infatti tradotti e pubblicati su riviste inglesi, cosa che contribuiva ad alleviare la sua povertà. Anche in queste opere, tuttavia, il Foscolo rivela la sua potente originalità. I suoi saggi, quali per citare i più importanti, i discorsi sulla lingua italiana, I saggi sul Petrarca, il Discorso sulla Divina Commedia, il Discorso sul testo del Decameron, il Saggio della nuova scuola drammatica in Italia, la Storia del sonetto italiano, sono come pietre miliari nella storia della nostra critica ottocentesca e aprono la strada che sarà poi percorsa, con un pensiero estetico più maturo, da Francesco De Sanctis. Il metodo d’indagine seguito dal Foscolo è storico e psicologico, fondato, prima di tutto, sul sentimento fortissimo dell’individualità umana e poetica dell’autore, che egli ricostruisce mediante un analisi minuta del linguaggio in cui essa si esprime e mediante una fervida adesione alle situazioni liriche e fantastiche in cui si rispecchia. Ma la singola personalità è da lui incentrata nell’ambiente storico di cui lui trae alimento e che, al tempo stesso, arricchisce con le sue nuove intuizioni sull’uomo e sulla vita. Qui il Foscolo porta nel suo esercizio di critico il sentimento dell’unità profonda fra poesia e vita, fra poesia e storia, che egli stesso aveva risolutamente affermato nelle sue creazioni. Pur partendo da concezioni sensistiche, il Foscolo veniva così ad accostarsi, nel concreto esercizio critico, a posizioni romantiche. Di derivazione sensistica è, ad es., l’idea che <>, che la poesia deve farci sentire fortemente la vita, rinnovando e avvivando nel profondo la nostra sensibilità, quelle <> dalla quale muove l’amore della vita; originale, invece, e vicino allo spirito romantico è il suo considerare l’opera d’arte non attraverso il complesso di sensazioni piacevoli che esso può suscitare, ma come espressione, soggettiva e insieme universale, di una individualità creatrice, come messaggio saldamente accentrato sulla storia d’una personalità, come un organismo vivente al quale il critico deve aderire, indicandone la dimensione dinamica e unitaria. A questa capacità di comprendere e di rivivere un mondo poetico, il Foscolo congiunge una sensibilità finissima per i valori espressivi. I suoi saggi contengono osservazioni acutissime sulla lingua, la metrica, lo stile dei singoli autori, preannunciando i modi propri della moderna critica stilistica.

Foscolo e il romanticismo italiano

Nel 1816, all’indomani della scelta definitiva dell’esilio, proprio a Milano, dove il Foscolo aveva indugiato fino all’ultimo nella speranza d’un riscatto italiano, si formava un gruppo di scrittori che si dissero romantici, in polemica coi classicisti. Erano di fronte due modi opposti del fare letteratura, ma anche due idee diverse della realtà, dell’azione politica e della responsabilità civile dello scrittore: della sua funzione nella società e nella nazione. I classicisti, conservatori e rassegnati alla dominazione austriaca, si raccolsero intorno alla rivista <>; i romantici, i liberali e fautori dell’indipendenza nazionale, intorno a <>(1818), fino a cadere poi vittime della repressione austriaca dei moti del ’21. A queste vicende letterarie il Foscolo dedicò due saggi in Italia, che era quella romantica. In entrambi appare evidente il distacco dell’autore dalle vicende italiane e il suo isolamento, la sua non partecipazione alla mutata temperie culturale e letteraria. Classicista, dunque, il Foscolo? Sarebbe astratto affermarlo, quanto il definirlo romantico; come lo sarebbe definirlo con alcuni, data la molteplicità di significati a volte contraddittori che si radunano sotto queste due etichette, un romantico neoclassicismo. Certamente non fu romantico, se con questa parola si intende definire, correttamente, l’adesione ai corti ideali e culturali e di poetica comuni a un gruppo: quello che potremmo chiamare dei nostri romantici 1816. Ma non lo si può neppure relegare fra i classicisti, data la reale indipendenza della sua posizione nei confronti di coloro che accettarono, di fatto, tale denominazione nella polemica classico – romantica in Italia. Un discorso più complesso va fatto a proposito della sua cultura letteraria e della sua cultura in senso lato. A questo proposito si possono indicare in lui numerose e notevoli suggestioni analoghe a quelle del romanticismo. In primo luogo il suo risoluto nazionalismo, fondato su un altro elemento importante della cultura romantica: l’importanza assegnata alla tradizione e alla storia, che il Foscolo attinge dall’insegnamento del Vico,e che si stava affermando, su altri modelli filosofici, in Europa. E romantica appare la sua personalità complessa e contraddittoria, l’atteggiamento, insomma, dell’Ortis, che egli non rinnegò mai totalmente, come fece invece Goethe nei confronti di Werther. Vicina alle idealità romantiche è, infine, il valore conoscitivo assegnato da lui alla poesia, l’esaltazione, anzi, di essa, come fondatrice di valori che, nonostante il sensismo e materialismo cui egli rimase fedele in filosofia, non si possono non chiamarli spirituali. Fu proprio, d’altra parte, questa filosofi a tenerlo lontano dalla piena adesione del romanticismo. La poesia serve, a suo avviso, a farci sentire fortemente la vita, ad arricchire la nostra intima vitalità, ma in perenne contrasto con l’istintiva ferinità dell’uomo e il trionfo della violenza nella storia: in opposizione, invincibile, ma tuttavia fragile e destinata all’insuccesso finale, al <>, alla <> della natura che <> le cose <>, all’oblio che involve tutte le cose umane nella sua <>. Mentre gli uomini del <> e gli altri romantici italiani credevano in un divenire progressivo dell’umanità, o, quando ritornavano alla religione dei padri, a qualche forma di provvidenzialità implicita nella storia, gli ideali foscoliani si affermavano drammaticamente, di continuo distrutti e risorgenti, nella perenne e insanabile contraddizione del vivere. Terminata la vicenda del Regno d’Italia mancarono al Foscolo la fede e la speranza in quel futuro dell’Italia che pure la sua poesia aveva contribuito a creare, al punto che egli resterà per tutto il Risorgimento, e come tale sarà riconosciuto dal Mazzini e dal Carducci, uno dei principali fondatori dell’idealità nazionale. Restarono, allo stesso modo, vivi e operanti in quegli stessi romantici con cui non voleva confondersi(Pellico, Berchet), il suo ideale di scrittore libero, d intellettuale impegnato, organico a una società e a una nazione, che egli sentì soprattutto come terra dei padri e come lingua, ancor prima che civiltà comune; la sua volontà di testimonianza totale, al prezzo dell’esilio e della sventura; l’idea d’una poesia che esprimesse e costruisse i valori umani perenne e quelli d’una particolare civiltà, nazionale, ma anche individuale. Sul piano letterario, tuttavia, soprattutto con Le Grazie, il Foscolo offrì un esempio di classicismo originale e permeato di spiritualità moderna, ma lontano, sul piano formale, dalla nuova ricerca romantica d’una letteratura nazionale e popolare d’una larga diffusione. Come l’immortalità di cui parla nei Sepolcri, così la testimonianza poetica rimase, nel Foscolo, avvolta da un’atmosfera individualistico – eroica, lontano dall’ideale di educazione nazionale e popolare che fu propria dei romantici italiani già nel 1816.

Ugo Foscolo. Le Grazie: commenti d’autore

Le Grazie e la ragion poetica del carme

Uniamo qui due appunti tratti dai manoscritti foscoliani delle Grazie, nati insieme alla prima, e fondamentale, fase compositiva del poemetto. Il primo scritto con calligrafia irregolare, incondizionato, sintatticamente non concluso, sembra attestare un primo balenare dell’idea, fissato frettolosamente sulla carta, come se il poeta temesse di perdere un’ispirazione che gli appare in forma d’intuizione globale. Il secondo passo è d’un momento successivo, quando, dopo un primo tentativo di concludere il poema in un solo inno, il Foscolo incomincia la stesura su tre. Da osservare la complessità di significazioni che il mito foscoliano delle Grazie – o meglio, della grazia – comporta. Esso è, infatti, estetico ed etico insieme: è scoperta della bellezza del mondo, che è poi, sostanzialmente un imporla da parte dello spirito umano alle cose, rispondendo, peraltro a una segreta armonia che esso avverte implicita alla natura; ed è un trasporre questa bellezza o armonia nell’animo, attraverso il dominio della passionalità ferina e la creazione di sentimenti veramente umani, come l’amor di patria, la gioia del beneficare, le virtù che garantiscono uno svolgimento sereno della vita associata, che fanno passare l’uomo dalle barbarie primitive, ma anche sempre ricorrente in lui, alla civiltà.

Allegoria classica e cristiana

Come afferma la lettura precedente, il Foscolo presenta le Grazie come un carme <>, giustificando questo procedimento nel senso che l’allegoria classica, cui egli si ispira, non era per lui una forma intellettualistica avversa alla poesia, ma, come dirà nella Dissertazione del 1822 , una <>. Ma il suo pensiero sull’argomento era più complesso, e si trova espresso in forma precisa nelle dissertazioni che accompagnò, nel 1803, alla sua traduzione della versione latina, fatta da Catullo, della chioma di Berenice dal poeta greco Callimaco. Ne riportiamo qui una parte per mostrare che l’idea delle Grazie accompagna, si può dire, tutta la carriera poetica del Foscolo, restando coerente dall’inizio alla fine; cosa che non stupisce, se si pensa all’ispirazione profonda che gli trasse dal mondo classico nella vita e nell’arte. Si ha qui, infatti, un esempio di classicismo originalmente rivissuto, sottratto all’astrattezza o al puro carattere di evasione o di mero ornamento del Neoclassicismo di molti contemporanei e ricondotto a ragioni culturali a ideologiche. Il Foscolo distingue qui fra allegorismo classico, da lui emulato, più tardi nelle Grazie,e allegorismo cristiano, contrapponendo, attraverso tale considerazione, una religione immanentistica, che consuona col suo pensiero e il suo sentire, a una trascendente. Nella prima, la verità s’incarna in figurazioni mitologiche, che la umanizzano, la inseriscono armonicamente nei giorni della vita; nella seconda, l’allegoria esprime un dualismo, se non un contrasto fra esperienza umana e trascendenza, che il Foscolo rifiuta. La scelta del mito corrisponde, nelle Grazie,a un’idea del mondo che si richiama agli antichi, fa di essi scala a una visione laica che assume la bellezza come scala privilegiata alla verità, come spontaneo modo di manifestarsi di questa. Sono posizioni che allontaneranno le ideologie fosco liane e la poesia delle Grazie dalla sensibilità dei nostri romantici, intesi a rivalutare la civiltà cristiana nata nel Medioevo e contrari all’uso della mitologia. E tuttavia, rispetto al classicismo precedente c’è un originale volontà, nel Foscolo, di intendere agli antichi in una dimensione storica, di legare la loro poesia alla loro specifica civiltà. Così faranno altri poeti che vivranno romanticamente la classicità; ad esempio il tedesco Hoelderlin.

Ugo Foscolo: “Le Grazie”

Accanto ai Sepolcri, le Grazie costituiscono l’altro vertice della poesia foscoliana. Il momento culminante della composizione si ebbe fra il 1812 e il 1813, quando il Foscolo si trovava nella villa di Bellosguardo presso Firenze. Da allora fino alla sua morte, continuò a lavorare, saltuariamente, al poemetto. Questa è la trama ideale del carme. Le Grazie sono concepite come divinità intermedie fra il cielo e la terra, figlie di Venere, simbolo, a sua volta dell’universale bellezza e armonia dell’universo. Tale armonia esse cercano di attuare nel nostro mondo, suscitando nel cuore degli uomini gli affetti più nobili e puri mediante le belle arti, che vincono la loro ferinità naturale e primitiva e li dispongono alla civiltà. Nel primo inno, dedicato a Venere, abbiamo una grandiosa fantasia di sapore vichiano. Il secondo inno è dedicato a Vesta. La scena è collocata a Bellosguardo, dove si svolge un rito alle grazie: sacerdotesse sono tre bellissime donne, amate dal poeta, Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami. Esse rappresentano rispettivamente, la musica, la poesia, la danza, che hanno un influsso rasserenatore e ispiratore d’armonia nel cuore dell’uomo. Il terzo inno è intitolato a Pallade, e ci trasporta nella mitica terra d’Atlantide, simbolo del mondo superiore della poesia, sottratto al tempo e all’incomposte passioni, espressioni della suprema armonia spirituale. Il poeta non è riuscito a dare ai singoli episodi una continuità logica strutturale. Il Foscolo crea una nuova mitologia, con le sue immagini d’intatto splendore, in cui si condensano il suo culto per la bellezza e lo slancio verso il perfetto e l’eterno, la sua aspirazione a sottrarre i più alti valori spirituali a tempo, alla morte, alla cupa violenza delle passioni. La divulgazione del poemetto seguì un percorso assai accidentato. Le Grazie restano così allo stato di frammenti, anche se con evidente unità di concezione e di stile. L’accoglienza del pubblico non fu favorevole nell’ottocento, quando, a partire dagli ultimi anni della vita del Foscolo, anzi, dal 1816, la letteratura italiana si avviò, sia pure con un itinerario parziale e contrastato, sulla via segnata dal Romanticismo, rifiutando il classicismo e l’uso della mitologia, e cioè due motivi fondamentali delle Grazie; e d’altronde la scarsa conoscenza di esse non rendeva possibile comprenderne l’originalità, pur dentro una struttura che ai nuovi scrittori appariva ormai desueta. L’armonia cercata invano nella rappresentazione dei contrasti più violenti che agitavano la vita del Foscolo e dei tempi suoi e che egli felicemente aveva tentato di proiettare su di uno sfondo eroico, era in quei frammenti sparsi in cui giorno per giorno essa era scaturita limpida liberandosi delle disarmonie della vita. <>. Ricordiamo ancora una volta il meditato passo dello scritto inglese: certo, attendendolo a raccogliere e a completare quegli sparsi frammenti, il Foscolo dovette riconoscere in essi l’opera caratteristica della poesia, quali egli la definirà nello scritto citato, la scoperta di un’armonia reale latente in ogni cosa, le eliminazione delle disarmonie che inevitabilmente ci affliggono. E che sono le Grazie così come ci sono rimaste se non la quotidiana scoperta dell’armonia da parte dell’autore, che giorno per giorno fra i suoi libri, sulle terre in cui vive, nel sorriso e nel sospiro di una donna, ritrova con commozione calma quell’armonia da lui presentita? In questi versi non ci si presenta più uno spirito, il quale, rapito da un improvviso entusiasmo, guarda all’intimo equilibrio, che rivela dall’alto dei secoli la vita umana, ma uno spirito che, animato da un tranquillo e moderato fervore, guarda, distogliendo lo sguardo dalle <> e dallo <>, allo spettacolo alterno del piacere e del dolore egualmente necessari all’uomo così come lo offrono gli aspetti usali della vita da questa contemplazione alza il capo ricreato. Compare in questi versi, ne potrebbe mancare in una poesia fosco liana, l’immagine del sepolcro, ci parli il Foscolo dei sacri poeti che gli appaiono dai <>, o delle Parche che col canto accompagnano gli eroi vaticinando <> e la gloria dei campi Elisi i, con più personale commozione, dell’unica amica, che >, ma compare, si vede, come l’eco di una poesia di un giorno, perduta l’intensità di allora quando urgeva alla fantasia come motivo unico ed esclusivo: <> che sono cortesi delle “note storie” l Foscolo non ci commuovono certo come i vati ispiratori dei Sepolcri, il canto delle Parche è ben più tenue dell’indimenticabile canto della leggenda della Maratona, e lo stesso accennò al sepolcro proprio, forse lontano, e alla pietosa amica perde di vigore se ricordiamo le chiuse visioni di dolore e di pietà della madre del sonetto In morte del fratello Giovanni e delle figure femminili dei Sepolcri. Ma l’atmosfera delle Grazie non è più solitaria atmosfera che si stende su solitario recinto delle tombe, fra le quali l’umanità ci sta dinanzi chiusa nella linea di un passato definitivo, bensì un aperta e viva atmosfera, che avvolge Galileo contemplante nella notte serena o la “vergine romita” a cui Amore manda rimembranze improvvise, o l’amica che tutta la notte piange col rosignolo presso un lago scintillante, o venere che fra uno sfolgorio di luce e di onde esce con le Grazie dal mare: in questa vita, senza portarsi aldilà della morte, il poeta ha trovato la capacità di evadere al tumulto del mondo e al mondo rapire, con una breve contemplazione, quegli spettacoli, aspirazioni eroiche e aspirazioni sentimentali, aspirazione voluttuose e aspirazione di purezza e serenità. Quasi meravigliandosi egli stesso e indovinando la meraviglia dei lettori, il poeta avverte questo singolare accordo tra l’animo suo “avverso nel mondo” e alcuni spettacoli della vita reale, che gli vengono incontro o dai vecchi libri fra cui medita dallo stesso presente in cui vive. “darà meraviglia che si fatta poesia possa essere uscita in un sì fatti tempi, e da un’anima angariata dalla fortuna, e per decreto di natura nutrita sempre delle pensosa Melanconia”. Le Grazie non contraddicono, ma compiono l’opera interiore del Foscolo: segnano il momento, in cui vive la tendenza palese in tutta l’arte fosco liana verso la contemplazione serenatrice, si è fatta, per una diuturna esperienza di poesia,, consuetudine e non più si manifesta per l’ispirazione di qualche singolare figura o di un’ora diversa da tutte le altre, ma al contatto con le cose più semplici e più familiari al poeta, quelle che sono più legate al suo affetto e alle sue abitudini. Il giovane, che, liberandosi da un presente tragico, vagheggiava perfette figure femminili, o in breve istanti di riflessioni riusciva a dominare anche la propria disperazione e comporla nell’ordine dell’universo, e più tardi, meditando accanto a sepolcri, scorgeva fra i segni della distruzione di individui e di popoli una perenne ragione di conforto, ora, nella sua maturità, rivolge lo sguardo alle cose che più gli sono vicine, e la poesia, anima della sua anima, gli si rivela negli aspetti più semplici, nelle ore più comuni della vita. La chiarezza e l’evidenza della rappresentazione sono caratteristica di quest’ultima poesia fosco liana: diversa la materia dei frammenti, diversa la data della composizione, i frammenti tutti delle Grazie hanno il comune carattere di scaturire da una consuetudine di contemplazione, che esclude ogni soverchio entusiasmo, come ogni tono complesso. Sono motivi antichi e motivi nuovi della poesia fosco liana, motivi appena accennati nell’epistolario e motivi liberati da scorie prosastiche di poesie anteriori: ma in tutti e più quelli composti per ultimi, quando quel nuovo ritmo della sua fantasia il poeta era del tutto conscio, è avvertita e sottolineata dal poeta la virtù serenatrice della sua contemplazione. Più grave e religiosa sgorga in questi ultimi versi la poesia del poeta, ma sempre semplice e piana: quando mai il Foscolo raggiunse, come in questi versi,, con la sola collocazione delle parole, tanta virtù di evocazione?

E quivi casti i balli,

Quivi sono pure i canti, e senza brina

I fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno

Sempre, e stellate e limpide le notti.

Non è idillio, non è sogno: è la religione, fra cui il poeta vive e che è diventata sua come sicuro possesso: a che parole più forti ed enfatiche? Ma ogni parola ogni pausa non può essere spostata senza distruggere tutto il quadro: di pausa in pausa, il lettore è portato dinanzi ad uno spettacolo sempre più ampio, mentre il cuore ha un senso di purezza sempre maggiore, fino alle notti mirabili, che riempiono l’ultimo verso e avvolgono l’isola pura di una stellata purità.

I Sonetti: Alla Sera

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge

ANALISI DEL SONETTO

E’ il più bel sonetto del Foscolo, è uno dei più grandi della nostra letteratura. Esprime <<lo smorzarsi di un tumulto grande ma umano nello sconfinato sopore dell’universo>>. Lo spegnersi d’ogni forma di vita nell’immoto silenzio della sera suggerisce spontaneamente il senso e l’idea della morte: ad essa si volge con nostalgia struggente il poeta, come a una promessa di pace. Essa non è più vista nell’aspetto di una drammatica sfida al destino, ma come il perdersi di una vita angosciosa  nell’oblio del nulla eterno. Tuttavia questo nulla non si esaurisce in un’arida visione materialistica o in uno scorato abbandono. Il poeta avverte la propria capacità di spaziare nell’eterno, di riuscire, pur mentre riconosce il proprio destino limitato, a comprendere in sé l’universo, la sua vicenda perenne di nascita, morte, trasformazione, e in tal modo riafferma la nobiltà della mente umana. In questo intonarsi sul ritmo più vasto della vicenda cosmica, supera ogni angoscia, in questa accettazione virile e consapevole del proprio destino ritrova la pace. Tutto il sonetto è dominato dal forse iniziale che il poeta non sa né vorrebbe chiarire: nella pace che il suo sguardo contempla, il suo cuore sente appagato un antico voto(fatal quiete) e la sua ragione scopre il fine a cui tende ogni forma di vita(il nulla eterno): egli constata questo accordo tra sensibilità e ragione, tra la vita propria e la vita dell’universo, ma non ne ricerca la cause e neppure si chiede se esso sia l’effetto di un illusione o si risponda ad una realtà. Il miracolo per quanto spesso rinnovato resta per lui sempre miracolo, sì da apparire un tempo familiare e misterioso: e familiare e misterioso è il tono di tutto il sonetto, così come familiari e misteriosi restano i moti più profondi dell’animo nostro, così come familiari e misteriosi  ci appaiono alcuni fenomeni della natura, nella loro costante successione, sempre attesi, pur sempre accolti da un rinnovato moto d’affetto. Così il senso di mistero, proprio della sera, viene ad acquistare in questo sonetto, che né dominato, un valore più profondo: al progressivo scomparire dei singoli spettacoli della vita terrena avvolti dalla luce serale, che a poco a poco si spegne, si accompagna il progressivo separarsi del poeta dalle cure del giorno. Via via che si diffondono le tenebre sulla terra la sua coscienza si va facendo più chiara e più pura: né sapremmo dire se quella chiarezza pacata gli venga da quello spettacolo, in cui le singole cose scompaiono nell’infinita atmosfera, o se da un’intima forza. Qualche cosa della natura più che umana della sera si trasfonde nell’animo suo e gli permette di contemplare gli uomini e sé medesimo con uno sguardo che non è umano, qualcosa della sua umanità si comunica alla misteriosa forza che domina il creato, si che egli può vagheggiarla come una persona cara e immaginarla corteggiata come una creatura umana. Fin dalle quartine, in cui il poeta contemplando uno spettacolo di cieli infiniti si stacca dalle cose terrene sentiamo che la poesia non si esaurisce in una contemplazione puramente estetica della sera, ma vuol darci il senso di una di quelle contemplazioni, con cui l’intelletto umano abbraccia l’infinito universo. In quei momenti diceva Jacopo <<la nostra mente contrae un non so che di celeste>>; e noi non ci sentiamo turbati, quando da quegli stupendi spettacoli siamo portati a contemplare non più qualcosa di sensibile, ma un concetto, che solo alla mente si rivela:

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno….

La meditazione del poeta non è guidata da una volontà speculativa, si sviluppa da quella semplice contemplazione di uno spettacolo naturale, pare si lasci guidare dalle cose stesse: e, ciò nonostante, serba la virtù purificatrice di ogni meditazione, per cui il nulla eterno, scoperto fine di ogni vita, non turba il poeta, ma gli dà quella calma che ogni concetto suol dare. Come lontano ormai da lui è il suo tempo, a cui pure è così legata la sua vita, come lontano i fremiti del suo spirito guerriero!ormai un’identica pace è nell’eterno, imperturbabile universo e nella sua mente, che non ha inteso il segreto.

E mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirito guerrier ch’entro mi rugge.

Dall’abituale solitudine, che il primo verso e il <<sempre giungi invocata>> fanno presentire, alla sorpresa della scoperta pace, all’affettuoso saluto,alla amorosa contemplazione fino alla meditazione e al giudizio  sul proprio tempo e su se stesso, il poeta ci si presenta così in una graduale purificazione di affetti e di pensieri: e alla fine del sonetto ci sta dinanzi un nuovo Foscolo che dal cruccio e dall’ira di ogni giorno ha saputo sollevarsi alla contemplazione dell’universo e al giudizio del proprio tempo e di sé medesimo. Lo spettacolo dell’infinito non lo ha invitato a dissolvere in esso la propria persona, non ha sommerso la velleità di pensiero, bensì lo ha guidato ad una cosciente,se non ordinata meditazione. Pur, nella commossa contemplazione, la sera è rimasta creatura distinta da lui, compresa dal suo sguardo e dal suo intelletto: ancora negli ultimi versi ben distinti vediamo la figura del poeta di fronte alla pace infinita del sera. Il Foscolo non aspira al dolce oblio di sé medesimo, ma alla purificazione delle sue passioni: non vagheggia di venir meno della coscienza, bensì quei momenti, in cui essa dalla contemplazione dell’universo si è fatta più chiara e più pura. Non alla soglia della religione ci conduce con la sua poesia, ma alla sogli della filosofia e della storia: e il senso di mistero che abbiamo notato in questo sonetto, non è già quello che l’uomo avverte nella scoperta di un Dio ignoto, ma quello che accompagna ogni meditazione, che ci liberi dalla nostra particolare e piccola individualità.

PARAFRASI

Forse perché tu o sera sei l’immagine della morte, sei così gradita quando vieni a me. Sempre scendi gradita. sia quando ti accompagnano le nuvole estive e i venti sereni, sia quando porti dal cielo nevoso tenebre lunghe e inquietanti e tu occupi le vie segrete del mio cuore con dolcezza. Mi fai vagabondare sulle orme della morte e intanto il tempo che sto vivendo fugge e con lui vanno le preoccupazioni, per colpa delle quali il tempo si consuma con me; e mentre io osservo la tua pace, dorme lo spirito guerriero che dentro di me ruggisce.

V.1. Forse[…]quïete: quiete per antonomasia designa la morte, secondo un uso classico (ad es. Properzio, II, 28, 25: “Quod si forte tibi properarint fata quietem”).

V.2. tu[…]imago: somigli. Ripreso forse da Marino, nel sonetto rivolto al “sonno gentil”: “Che se in te la sembianza onde son vago/ non m’è dato goder, godrò pur io / de la morte ch’io bramo almen l’immago” (nel “Parnaso italiano”)oppure da Ippolito Pindemonte, I, La Sera,1: “Immagine di questa umana vita”.

Vv.3-6. E[…]meni: Pindemonte, I, La Sera, 49-55: ” Ma o sia che rompa d’improvviso un nembo,/che a te spruzzi il ben crin, la Primavera,/o il sen nuda, e alla veste alzando il lembo/l’Estate incontro a te mova leggiera,/o che l’Autunno di foglie il casto grembo/goda a te ricolmar,te,dolce Sera,/canterò pur[…]” dove il variare delle stagioni è del pari ininfluente sullo stato d’animo del poeta.

Vv.3-4.E[…]estive: l’immagine è ripresa dall’Ortis (1802): “Pur verrà dì che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure cadrai nel vano antico del caos: né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti”.

Vv.5-6. nevoso[…]meni: d’inverno(nevoso aere) conduci sull’universo tenebre che incutono timore (inquiete) e che durano a lungo (lunghe); ma inquiete potrebbe valere anche, etimologicamente, tempestose.

V.7. sempre […]invocata: sembra risentire dell’accorata apostrofe di Properzio, Elegie, I, 10,1-4, non a una notte in generale, ma a una notte affatto privata, gelosamente custodita dalla memoria: “O iucunda quies, primo cum testis amori/adfueram vestris conscius in lacrimis!/O noctem memisse mihi iocunda voluptas,/ o quotiens votis illa vocanda meis”.

Vv.7-8. secrete […]vie: meglio intendere piuttosto che “occupi”, “percorri”.

V.9. Vagar[…]orme: Marino, nel sonetto citato sopra scrive: ” sonno gentil, per le cui tacit’orme/son l’alme al ciel d’Amor spesso condotte”(vv.3-4).

Vv.10-11. intanto[…]tempo: la classica immagine del tempus edax è permeata da prestigiose, quasi concomitanti memorie antiche: “[…]Dum loquimur/fugerit invida aetas[…]“, Orazio, Odi (Orazio), I, 11, 7-8.

Vv.11-12. e[…]cure: per il significato dicura bisogna rifarci al commento alla Chioma di Berenice,VI,327: “Prepotente desiderio che vive in noi, pieno di speranze e di timori”.

V.12. onde: in mezzo a cui

V.14.spirto guerrier: non battagliero, ma inquieto, travagliato, agitato, e combattuto da furiose passioni. Il sintagma ricorre tra l’altro nel Giovanni Della Casa, Rime (Della Casa),XLVIII,1: “Feroce spirito un tempo ebbi e guerriero”; oppure nel Tasso, III,[723],224,46-48:”né freddo e pigro dorme/spirto d’amor guerriero/nel cervo[…]“; o anche Alfieri nella tragedia Saul (Alfieri), atto IV, scena IV, 141-142:”[…]Rinvigorir mi sento/da tue minacce ogni guerrier mio spirto”.