L’Allegria è una raccolta di poesie pubblicata da Giuseppe Ungaretti nel 1931. Il suo titolo originario era Allegria di naufragi. La maggior parte dei testi poetici esprime soprattutto i sentimenti nati dalla esperienza della Prima guerra mondiale, come dolore ma anche come scoperta dei valori più autentici di fratellanza ed umanità.
L’Allegria” che dà il titolo al libro fin dall’edizione del 1919 (Allegria di naufragi), è, spiega il poeta, “l’esultanza che l’attimo, avvenendo, dà perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo, l’amore più forte che non possa essere la morte. E ‘ il punto dal quale scatta quest’esultanza di un attimo, quell’allegria, che quale fonte non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare”. E’ dunque, un sottrarre la vita alla fuga e al declino del tempo: un presentimento dell’eternità nell’attimo, in cui la poesia diviene scoperta e coscienza elementare dell’essere. Ungaretti, con questa definizione, non intendeva configurare una filosofia, ma “un’esperienza concreta, compiuta sin dall’infanzia ad Alessandria e che la guerra 1914 – 1918 doveva fomentare, inasprire, approfondire, coronare”. Alessandria è presente in alcune dense liriche del libro, come memoria del primo affacciarsi alla natura e alla vita; e permarrà anche in seguito come memoria della fondazione d’una struttura conoscitiva ed esistenziale. Ma l’allegria come “volontà di vivere” nonostante tutto trova la sua forma esemplare nella condizione alienata della vita nelle trincee della grande guerra: realtà, e, insieme, simbolo della precarietà dell’uomo e della sua storia. La scoperta di Ungaretti è il suo divenire “uomo di pena” come gli altri e con gli altri: nel ritrovarsi con tutti i soldati nella brama di resistenza alla morte, in una solidarietà che è rivolta contro la guerra: quella presente e, nel contempo, quella da sempre connaturata all’esistere. All’annullamento imposto dalla guerra l’uomo oppone l’opaca ma sicura resistenza del proprio “tempo”, che è passione e desiderio di autenticità o “innocenza”, intonando la propria sulla vitalità cosmica. Accogliendo lo sperimentalismo espressivo d’una generazione Ungaretti cerca una nuova “innocenza” anche nella parola. L’originale rapporto ch’egli stabilisce, oltre che col mondo, anche, e prima di tutto, col linguaggio, costituisce l’aspetto più originale del libro e la sua importanza nella storia della poesia novecentesca. Il nuovo stile abolisce ogni compiacimento eloquente, ogni intellettualismo, ogni costruzione complessa del periodo e del pensiero. La sintassi e la metrica vengono frante per lasciare emergere la parola come evocazione pura, invenzione del mondo umano; la sillabazione rallentata prende il posto delle cadenze metriche tradizionali, isolando una singola parola, a volte una semplice proposizione come “di”, e creandole intorno una vibrazione di canto, un nuovo spazio e un nuovo tempo, un senso totale di verità. Il senso è quello di un linguaggio aurorale, edenico, come edenico è il desiderio del poeta di “sentirsi in armonia”, di ritornare a essere una “docile fibra dell’universo”. Chiuso, com’egli afferma, tra cose mortali, nel dramma della guerra, che è figura dell’inautenticità del vivere contemporaneo, dell’attuale alienazione dell’uomo, Ungaretti non propone soluzioni, ma il rigore di una testimonianza: l’”allegria”, appunto, dell’armonia presentita e ritrovata nell’attimo breve della poesia, fra l’uomo e la realtà. Il costruirsi della sua lirica su versicoli brevi e intensi, su parole scavate sul profondo, appare una sorta di re- invenzione, nella poesia e nel linguaggio, della verità e della persona. Poesia diviene così un discendere in se stessi fino a ritrovare quel grumo nascosto, irriducibile , ineffabile, di essere e parola; fino, cioè, a quel punto in cui il flusso universo della vita si fa coscienza individua, e cioè parola, fondatrice della realtà umana, epifania o rivelazione, sempre fatalmente parziale, della vita profonda della coscienza e, insieme, dell’universo. La poesia ritrova, e rinnova, il linguaggio, è il rituale manifestarsi d’un mito delle origini: è idealmente, la prima parola detta dall’uomo, il suo ritrovarsi, definirsi e costruirsi nel linguaggio. “Onore degli uomini, santo/linguaggio”, scriveva in quei tempi Paul Valéry; e “vita d’un uomo” ha intitolato Ungaretti la raccolta definitiva delle sue poesie, non nel senso biografico o autobiografico corrente, ma come espressione dei momenti essenziali dell’esperienza umana. Nasce di qui la concisione, anzi la sintesi vertiginose delle poesie di Ungaretti, quel loro prescindere dalla forma narrativa o esplicativa d’idee o di sentimenti da persuadere. La sua poesia non intende esprimere dei contenuti, ma fondare delle consapevolezze attraverso l’atto del dire. Diciamo “atto” per la teatralità del dettato ungarettiano, coi suoi frequenti deittici, e tenendo presente il fatto che questa poesia intende essere presa di coscienza e costruzione dell’umano sull’oscuro e germinante caos dell’essere; un dialogo con la propria coscienza segreta. La verginità della parola comporta l’autenticità ritrovata dell’io che la scopre la pronuncia. Come s’è accennato, la raccolta si venne costituendo in un ampio giro d’anni. Ungaretti pubblicò dapprima il Porto sepolto(1916): un’opera organica, composta d’un gruppo di poesie che resteranno nella posteriore raccolta, spesso senza varianti, ripubblicata, come libro a sé stante, nel 1923. Nel ’19 apparve Allegria di naufragi, una raccolta di tutte le poesie composte sino ad allora, meno organica del Porto, ma più ampiamente divulgata e quindi entrata più incisivamente nella cultura poetica di quegli anni. Il titolo l’allegria compare nell’edizione del 1931; seguirono le edizioni del ’36, poi del ’42, tutte con varianti, e altre, fino a quella definitiva del 1969.
IN SINTESI
L’edizione definitiva dell’Allegria esce nel 1942; è la prima importante raccolta in cui Giuseppe Ungaretti riunisce, sistema e riordina le precedenti pubblicazioni che, con altri titoli, avevano contenuto le poesie che via via l’autore aveva prodotto.
La prima di queste precedenti pubblicazioni risale al dicembre del 1916 e porta il titolo Il porto sepolto, un piccolo volume pubblicato a Udine da un suo amico e commilitone, il tenente Ettore Serra. Conteneva il primo nucleo dell’edizione definitiva del 1931, comprese le poesie scritte al fronte, dal 22 dicembre 1915 al 2 ottobre del 1916. La prima poesia è Veglia (Cima Quattro, 23 dicembre 1915), l’ultima è Commiato (Locvizza, 2 ottobre 1916).
Una parte dell’opera è costituita anche da ricordi della vita civile (in Egitto e a Parigi), che però in qualche modo la guerra ha contribuito a far rievocare. I versi che compongono In memoria per esempio sono incentrati proprio su un fatto riguardante la sfera personale dell’autore in Francia: la poesia rievoca la sfortunata vita dell’amico arabo Moammed Sceab, suicida “senza patria” nel 1913, con cui Giuseppe Ungaretti aveva vissuto a Parigi, all’albergo di rue des Carmes. La poesia che dà il titolo alla raccolta del 1916, Il porto sepolto, parla di un porto, sommerso, ad Alessandria, città natale dell’autore, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che la città era un porto già prima d’Alessandro. I fiumi è una celebre composizione, nella quale Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati, ossia,l’Isonzo, il Serchio, il Nilo, la Senna. Attraverso i fiumi il poeta ripercorre le “tappe” più importanti della sua vita. Pellegrinaggio esprime invece la capacità di trovare la forza interiore per salvarsi dalle macerie della guerra. In essa egli formula la nota definizione di sé: «Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio»[1].
La poesia più famosa dell’opera è Mattina (M’illumino / d’immenso)[2], scritta a Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917. «È la poesia più breve di Ungaretti: due parole, tra di loro unite da fitti richiami sonori. Nell’illuminazione del cielo al mattino, da cui nasce la lirica, il poeta riesce a intuire e cogliere l’immensità» (Marisa Carlà).[3] Romano Luperini ha notato come “l’idea della infinita grandezza… colpisce nella forma della luce”.[4]
Considerazioni su “L’Allegria”
In un discorso premesso a una scelta delle sue liriche, Ungaretti definisce le ragioni storiche e spirituali della rivoluzione da lui portata nel linguaggio, nella metrica, nelle consuetudini espressive della nostra lirica. Fu una rivolta morale contro i falsi miti e le pose dannunziane e la turgida retorica del Futurismo d’un linguaggio più autentico, che riscoprisse, liberandola dalle deformazioni estetizzanti, la vera vita della coscienza. Ungaretti lega questa poetica nuova all’esperienza della guerra ’15-’18, da lui vissuta come combattente, che gli fece cogliere la vita nella sua essenzialità d’amore e dolore, di angoscia della morte e di bisogno di ritrovare una fraternità umana. In tal senso, questo passo è la migliore introduzione alle liriche dell’Allegria scritte durante la guerra.