Analisi e commento di “Patria” di Giovanni Pascoli. (da Myricae)

Sogno d’un dì d’estate.
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.
Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose;
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, róse:
due bianche spennellate
in tutto il ciel turchino.
Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbiatrice,
l’angelus argentino…
dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.

Struttura metrica:

due ballate di settenari, ciascuna di due stanze. Schema a (ripresa), bc bc (mutazioni), a (volta). La ripresa della seconda ballata è sintatticamente collegata a mo’ di conclusione, alla prima.

In tutto il libro di Myricae trascorre con una vena di dolore antico: il ricordo di una sciagura domestica del poeta, della sua infanzia stroncata, di quella precoce esperienza della morte e del male, che diffuse un ombra d’angoscia su tutta la sua vita. In un giorno d’estate egli sogna di ritornare a S. Mauro, e rivive in una sorte d’estasi quel dolce paesaggio d’infanzia. Gli oggetti s’ affacciano l’uno dopo l’altro alla memoria componendosi in un quadro idilliaco. Poi, l’incantesimo s’infrange:. Un sogno mesto di campane riporta il senso dell’antico dolore, il latrato d’un cane fa sentire il poeta irreparabilmente straniero nella sua terra.

Breve analisi del testo

V1:Il primo verso propone il tema della lirica: un sogno d’estate.
V2-6: le prime sensazioni sono uditive, il ricordo della musica d’una estate lontana. SCAMPANELLARE TREMULO: è il frinire delle cicale; ACCARTOCCIATE: rinsecchite dall’arsura estiva e per questo stridule nel loro trascorrere sul suolo mosse dal vento.
V7-12: Subentrano ora sensazioni visive. Il sole produce FASCIE POLVEROSE (liste luminose, ove vagano crepuscoli) fra gli olmi; nel cielo turchino ci sono due nuvole candide, solitarie, corrose dall’arsura estiva.

V13-17: Ora visioni e suoni si mescolano con una tonalità evocativa più intensa nella memoria del suono dell’ANGELUS che condensa e conclude il paesaggio emergente da sensazioni prima come disperse. FRATTE DI TAMERICI: cespugli di tamerici (le Myricae).

V18-22: DOV’ERO: E’ un riscuotersi improvviso nel sogno. PIANGENDO: questa è la voce più intima della patria: la memoria del dolore. Il poeta cammina solo fra i luoghi cari d’un tempo, curvo sul proprio dolore, di cui proprio li ebbe la prima rivelazione.

Il Simbolismo dannunziano

Uno dei caratteri più vistosi dei romanzi dannunziani, quasi una costante che unifica le diverse formule narrative e i loro modelli di conflitto drammatico, è la figura del personaggio principale, che risulta sempre un tipo di artista, un raffinato sensitivo che si studia e si osserva, che sente con straordinaria acutezza il proprio rapporto con le cose e si compiace di analizzarlo, di inseguirlo nel labirinto della memoria. Anche la natura è vista di solito con il suo occhio, che poi, si capisce, è una proiezione, una maschera dello scrittore. Ciò permette di leggere ogni romanzo come una sorta di poetica o di riflessione sui processi interni della sensibilità. Per quanto appaia che essa viene sceneggiata e retificata, tradotta nel linguaggio dell’eloquenza che vuole sublimare, così, uno stato d’animo creativo e renderne partecipe il lettore. Ora se si prende il piacere, si vede sin dalle prime pagine che il gioco introspettivo del protagonista si sdoppia in una poetica delle corrispondenze, della specularità emotiva tra oggetto e soggetto. “gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico danno alle cose un’anima sensibile e mutabile come l’anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, né colori, né suoni, né profumi, un simbolo trasparente, l’emblema d’un sentimento o d’un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazione di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in questi spiriti un’angoscia”. E’ inutile avvertire, tanto il ricordo è palese, che i colori, i suoni e i profumi riproducono la triade di Correspondances, così come risulta evidente, nello stesso tempo, che l’effetto dannunziano si limita a una “reverie” associativa. Senonchè, una volta riconosciuto il suo salto di potenziale fantastico, bisogna anche prendere atto della presenza doviziosa di questo motivo lungo tutto il romanzo, dal “paesaggio” intorno allo Sperelli che divenne “per lui un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che lo guidava attraverso il labirinto interiore” alle “segrete affinità” che “egli scopriva tra la vita apparente delle cose e l’intima vita dei suoi desideri e dei suoi ricordi”, dalla “rispondenza” che trasfigura il reale in “immagine sognata della scena reale” e in ombra di una “vita interiore” alla “concordia dei profumi illanguiditi dall’autunno” che “pare come lo spirito e il sentimento di quello spettacolo pomeridiano” o alla “visione” di una “luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose possono essere visibili lontani per un irradiamento che si prolunga nelle loro forme”. Nel Trionfo della morte vengono in primo piano tutte le parole chiave o la cultura simbolistica, con una tonalità entro cui si avvertono i fermenti di rapporti inventivi più personali. Non si pensa tanto alla “selva di simboli”, al “cielo di pure astrazioni”, che in fondo servono solo a qualificare un’”anima religiosa, inclinata al mistero”, quanto alla “simpatia” con le cose , alla “facilità” di “comunicare con tutte le forme della vita naturale e di trovare infinite analogie tra le esperienze umane e gli aspetti delle cose più diverse”, al tendersi dell’”attenzione” per “rintracciare qualche viva rassomiglianza tra il suo essere e la natura circostante”, ai “segni ed emblemi, d’un’altra vita” , sotto la “superficie opaca” della coscienza, al “ frammento visibile d’un mondo allegorico ideato da un teurgo”. La simbiosi con l’arte wagneriana, da cui dipende anche l’iniziazione al “ritmo” e il “mistero” di un antico rituale ctonio, allarga le corrispondenze analogiche delle “sinfonie crepuscolari”, delle “essenze nascoste” e dei “simboli immateriali” dove la luce è musica e la musica luce, dove i “colori” e i “profumi” fluttuano tra suoni, e acuisce il brivido confuso della percezione alle soglie di un universo “chimerico” interno all’uomo: dall’”odore e il pallore di qualche primavera dissepolta” che poi è una citazione del poema paradisiaco, si giunge così al “fiato della primavera” che esaltano “due mazzi di violette” e al “profumo stridulo e pur molle” di una pelle giovane. Il sogno del mito, congiunto a quello del teatro, domina anche il fuoco, ma sposta l’asse dei simboli “immateriali” che circolano musicalmente nel poema romanzesco verso “il senso dionisiaco della natura naturante” e verso le “analogie” di una “bestialità primitiva” la quale poi è a sua volta una metafora, come aveva già intuito il nostro Serra, un esercizio di finzioni e di travestimenti poiché l’intelligenza narcisistica possa godere del proprio corpo e della sua ricchezza sensoria, di quella che viene designata dalla “creatura notturna” come la potenza di fecondazione e di rivelazione”, la “vita iperbolica” di un “allucinazione febbrile”. Sulla vecchia matrice delle affinità simboliche si sviluppa intanto l’idea magica della poesia che è una “metafisica pratica” il cui ritmo, come nella musica, sta “nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue”, cioè nel “silenzio musicale” di un’”atmosfera vivente e misteriosa”. Nel suo inventarsi come danza e trasognamento della fantasia, sul fondo del corpo e della sua fertilità vegetale, la sensazione giunge a essere conoscenza, non dell’ignoto e del nuovo che esigono una discesa agli inferi, ma del mistero che si cela nel “sogno delle cose”, dell’”enigma visibile” nell’istante in cui “l’anima si fa pelago del rimembrare”, dell’Infanzia lontana e perduta, che interroga la terra e parla con le acque. Ed è proprio la visione del sogno dove, dice Valéry, le cose che vediamo ci vedono come noi le vediamo, quasi per un’equazione magica. Dal sortilegio musicale del corpo nasce insieme una sorta di scrittura oggettiva, un linguaggio di “segni” come quelli che il vento scrive sulla “docile sabbia” con le “penne dell’ala”, nel lucido limbo dell’estate. A guardare bene, il mito di Undulna si trasforma nel mito della scrittura, fuga di segni, di accordi e di pause entro le sequenze delle cose, fascinazione mimica di analogie in cui si prolunga il brivido della materia, il delirio artificiato della favola.

Analisi e commento de “Il libro” di Giovanni Pascoli. (da Primi Poemetti)

I
Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
sfogli – se n’ode il crepitar leggiero –
le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero…
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta… Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?… Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.

Struttura metrica:
Terzine dantesche divise in tre strofe di 13 versi ciascuna.

Analisi del Testo
V1-2: SOPRA…LIBRO: Il paesaggio fisico e simbolo, della poesia è già qui indicato nei suoi tratti essenziali: un leggio di quercia, un libri, una loggia aperta ai venti nella parte più alta della casa (altana), sulla quale già s’intravede un ampio spaziare d’orizzonti. Poi, entrerà in scena l’uomo, il personaggio muto. Non c’è determinazione di tempo (solo più avanti si parlerà di “vespro”) ma sentiamo che l’atmosfera è quella della notte, il tempo del “mistero”.
V2-6: La quercia di cui è fatto il leggìo viveva, nella selva dalle fronde risonanti al vento, scossa (esercitata) dalla tramontana, e il libro era già antico. Ora, aperto, sembra ascoltare il rumore incessante del tarlo. Cominciano qui ad addensarsi i simboli: il libro è quello dell’universo, ed esiste da sempre, prima ancora della quercia (la natura) di cui è fatto il leggìo; il tarlo è il tempo, nel suo scorrere incessante. Il fascino maggiore di questi versi è più che nei singoli oggetti simbolici nell’atmosfera suggestiva che li circonda e li sfuma, nelle pause e negli improvvisi silenzi, in quegli imperfetti indefiniti, senza tempo, nell’armonia imitativa delle parole.
V7-12: E sembra…Carte: sembra che uno (l’uomo, l’umanità) giunga improvviso sull’altana e sfogli il libro, cercando una parola rivelatrice. Come e donde sia giunto, il poeta non sa: non sa cioè nulla dell’origine dell’uomo, né di quella sua essenza che lo spinge a cercare un perché delle cose: è un mistero che la scienza non sa spiegare. V11 IL CREPITAR LEGGERO: il rumore (evocato dal suono delle stesse parole) ricorre come motivo conduttore per tutta la poesia e approfondisce per contrasto, l’atmosfera di silenzio intorno.
V12-13: il poeta non vede l’uomo, ma lo sente. Non si tratta di presenza fisica, ma dell’essenza spirituale dell’uomo, del suo pensiero proteso nell’incessante ricerca.
V27-39: la visione s’allarga. Attorno alla solitaria ricerca si apre un vasto paesaggio, di cieli, di stelle, dove a tratti sembrano aleggiare favolose chimere. Il Pascoli allude alle angosce, alle illusioni, ai sogni, attraverso i quali si svolge la ricerca umana. Quel paesaggio sembra la suggestione dell’ignoto, presentita dall’uomo e tale da dargli continuamente il fascino del mistero, spingendolo a proseguire la ricerca. V27-28 AL VESPRO…ROSSEGGIA: al tramonto che si tinge di rosso affanciandosi fra nere nubi temporalesche. V29: forse le nubi assumono forme di animali favolosi, le chimere, che volteggiano alate nell’aria. Ma certo il Pascoli ha pensato anche al significato della parola “chimere” (illusioni). V30-33 E SFOGLIA…NOTTE: le tenebre si diffondono come immense tende (padiglioni) gonfiate dal vento. Le costellazioni appaiono solitarie, deserte, perché sperdute nell’immensità degli spazi. Sacra è la notte per la sua tenebra arcana. V34: CREPITO ARDITO: il crepito dei fogli. “Arido” ha prima di tutto un valore fonico evocativo, ma allude forse anche all’infruttuosa ricerca. V34-35: I CANTI LUNGHI: assomigliano all’aliare delle chimere. Sono le suggestioni che ci giungono dall’ignoto. Le sirene incantavano i marinai col loro canto.

Commento al Testo

La poesia è costruita su una trama chiaramente allegorica: fin dalla sua comparsa nel mondo l’uomo cerca di decifrare il libro dell’universo, per trovare una spiegazione alla vita propria e a quella del cosmo. Invano, che la ricerca affannosa approda soltanto alla coscienza d’un mistero inconoscibile. Il valore della lirica non sta nel concetto in sé, ma nell’atmosfera arcana che l’avvolge e che rende il mistero presenza inquietante. Poche le determinazioni descrittive di questo dramma metafisico: una loggia, un leggio di quercia su di un’altana, un libro aperto; e intorno il soffio vasto del vento, uno spaziare immenso di costellazioni deserte e lontane. Ma attorno a questi simboli definiti è tutto un fluttuare di suggestioni ineffabili; un palpitare di silenzi, una musica evanescente, eco veramente dell’ignoto. Da esso vengono voci arcane, che parlano nelle oscure profondità della coscienza, divengono impulso a continuare la ricerca incessante e vana. Rispetto a Myricae, c’è qui, e, in genere, nel Primi Poemetti, l’ambizioni di strutture intellettuali più complesse. Tuttavia il Pascoli rimane il poeta degl’improvvisi trasalimenti, dei silenzi assorti, d’un affiorare suggestivo d’immagini.

Analisi e commento de “La tessitrice” di Giovanni Pascoli. (da I canti di Castelvecchio)

Mi son seduto su la panchetta
come una volta … quanti anni fa?
Ella, come una volta, s’e’ stretta
su la panchetta.

E non il suono d’una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.

Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d’un cenno muto:
Come hai potuto?

Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a se’.
Muta la spola passa e ripassa.

Piango, e le chiedo: Perche’ non suona
dunque l’arguto pettine piu’?
Ella mi fissa timida e buona:
Perche’ non suona?

E piange, piange — Mio dolce amore,
non t’hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.

Morta! Si’, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so:
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormiro’.

Struttura metrica:
tre STROFE di sette versi e una di quattro. Le prime tre sono composte di tre quinari doppi ABAa, CBC (il 2° e il 4° tronchi). Ma le assonanze, le ripetizioni, le riprese aggiungono allo schema ritmico una nuova e suggestiva armonia.

Breve analisi del Testo

V1-2: non rievoca la casa testimone dell’amore antico, ma quella PANCHETTA soltanto, sulla quale sedette accanto alla fanciulla.
V3-4: riaffiora, dal fondo della memoria del poeta, il fantasma di Lei, non l’immagine però del suo viso, ma un gesto (s’è stretta) che denota la sua pudica femminilità. Il quarto verso determina come una sospensione ritmica, dopo la quale s’effondono con un canto, più abbandonato i due seguenti.
V5-6: tutta la lirica è immersa in questo silenzio, appena increspato da parole non pronunciate che riecheggiano nell’anima assorta. SOLO…PIETà: il sorriso suggerisce la memoria dell’amore lontano; ma è divenuto tutto pietà: per la vanità di quel sogno. V7: LA BIANCA SPOLA: non “candida”, come poteva essere rievocata in una fantasia d’amore, ma “bianca” è la mano di una morta. Il gesto (lascia la spola) è la ripetizione di quel antico, quando ella interrompeva il lavoro per ascoltare le parole del poeta. Ma il verso, così isolato dagli altri, dà al gesto un aspetto irreale, fantomatico; è un ripetersi di quel gesto, ma meccanico e senza più vita.
V10-11: la fanciulla riecheggia le parole e il pianto del poeta.E’ un dialogo solo apparente. D’UN MUTO: non parole, ma un’inflessione appena percettibile del viso.
V12-14: E’ forse la terzina più suggestiva: il pettine muto, la spola muta, quel movimento senza rumore, danno veramente il senso della morte, d’un ricordo fatto di gesti uguali ma esangui, di una parvenza funerea di vita; LA CASSA: <<la parte mobile del telaio che contiene il pettine, per cui passano le fila dell’ordito, e con cui si percuotono e si serrano le fila della trama”.
V24-24: la tela tessuta un tempo dalla fanciulla per il lenzuolo nuziale, diviene il sudario dov’ella giacerà si accanto al poeta, ma nella morte, che è vista come un dormire nel sonno del nulla.

Breve commento al Testo

Il ritorno a S. Mauro assume, dunque, un carattere di conclusione, di ritorno alle origini: cioè alla fanciullezza e alla giovinezza infrante delle esperienza sconvolgente della morte. I suoi morti, il poeta che per tutta la vita ha portato in sé, riaffiorano dai gorghi della memoria; il padre, la madre, il suo io fanciullo e la tessitrice di questa poesia, che gli ispirò il primo desiderio d’amore. Ma questi morti non sono ricordo nostalgico e immagine inconsunta di giovinezza, com’è la Silvia leopardiana; sono ombre esili, dipinte d’un vago pallore di fantasmi, d’un colore evanescente eppur quasi fisico di morte: segno d’un angoscia ancora non consumata, d’uno sgomento rimasto vivo nel cuore e nei sensi dalla prima rivelazione del nulla in cui precipita la vita. Così qui il dialogo, ma in realtà monologo, del poeta con la tessitrice, si conclude con un immagine funerea. Ella tesse il funebre sudario, nel quale dormirà con lui un sonno eterno. La rimembranza d’amore culmina in una fantasia di morte: la vita appare un brillare fugace fra abissi d’ombra.

Analisi e commento de “Le rane” di Giovanni Pascoli. (da I canti di Castelvecchio)

Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz’aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.
Qual è questa via senza fine
che all’alba è sì tremula d’ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito?
chi svolge dal cielo i gomitoli
d’oro?
Io sento gracchiare le rane
dai borri dell’acque piovane
nell’umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d’un treno
che va…
Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz’eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo; mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.
Per l’aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!
E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s’allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà…

Struttura metrica:
Due gruppi strofici, composto ciascuno da due strofe di otto versi (sette novenari e un ternario ABABCDDc) seguiti da una di sei (cinque novenari e un ternario trono: EEFGGf)

Commento e note al testo
V1-2: HO VISTO: L’espressione, ripetuta al v3, dà il senso dell’improvviso esultare del cuore, quasi d’un ansioso afferrare le cose care d’un giorno. Si nota anche l’intensità squillante di quel colore rosso, immagine centrale di due versi.
V5-6: E…VERDE: e ho visto i pioppi distendere a mezz’aria una frangia (penero) verde. Dice man mano perché è un filare di pioppi lungo la via che si snoda verso un’indefinita lontananza, quasi secondando il libero vagare della fantasia del ricordo. V11. CANAPINE: uccelli frequenti nelle piantagioni di canapa.
V15-16: GOMITOLI D’ORO: indica le note limpide e chiare, connesse in un ciclico canto, delle allodole, secondo il Pietrobono; secondo altri, il loro volo a spirali nel sole. La sillaba finale “li” va computata metricamente nel verso seguente.

V20-22: E…VA: il canto delle rane pare lo strepito d’un treno. L’immagine sarà ripresa e approfondita alla fine. Ma fin d’ora quel “nero” allude a un senso di tristezza che contrasta con il “lume sereno” diffuso in questa prima rievocazione della patria; una nota ribadita dal “che va”, che dà il senso d’una meta riconquistata e al tempo stesso perduta.
V.23-38: son tutte voci e colori indefiniti che dissolvono le cose in un palpito di dolcezza e malinconia. E’ questo un paese di memoria e di sogno, paese del tempo perduto che può rivivere solo nell’illusione, nella trasfigurazione del ricordo. E illusione è il ritornare è il rimanere, il riposare lì, ma il Pascoli s’abbandona ad essa per rivivere l’incanto della giovinezza.

Il ciclo il ritorno a S. Mauro, posto alla fine dei canti di Castelvecchio, ma iniziato nel ’97, nacque da un ritorno tutto ideale del poeta nella sua terra, da cui trassero ispirazione le rane, La tessitrice, la messa, seguito poi, da un ritorno reale, nel quale maturarono Casa mia, Mia madre, Commiato, e, più tardi, Giovannino, Il bolide, Tra San Mauro e Savignano. E’ un poema di memorie, incentrato sul colloquio tra il poeta e la madre, presso la casa e i luoghi dell’infanzia lontana. S’effondono in esso i ricordi del tempo perduto, avvolti da una patetica nostalgia che li rende attuali e, insieme, da un’eco di dolore per quello che la vita poteva essere e non fu. La lirica le rane apre la breve sinfonia. E’ una poesia sospesa fra il balzare vivido del paesaggio d’un tempo, riscoperto con una gioia velata d’ansia e malinconia, e lo “strepere nero” del treno che corre e non s’allontana, simbolo della vita che scorre e tuttavia resta immota, perché irrisolta resta il suo problema centrale. La ricerca ansiosa e vana di felicità.