Il Simbolismo dannunziano

Uno dei caratteri più vistosi dei romanzi dannunziani, quasi una costante che unifica le diverse formule narrative e i loro modelli di conflitto drammatico, è la figura del personaggio principale, che risulta sempre un tipo di artista, un raffinato sensitivo che si studia e si osserva, che sente con straordinaria acutezza il proprio rapporto con le cose e si compiace di analizzarlo, di inseguirlo nel labirinto della memoria. Anche la natura è vista di solito con il suo occhio, che poi, si capisce, è una proiezione, una maschera dello scrittore. Ciò permette di leggere ogni romanzo come una sorta di poetica o di riflessione sui processi interni della sensibilità. Per quanto appaia che essa viene sceneggiata e retificata, tradotta nel linguaggio dell’eloquenza che vuole sublimare, così, uno stato d’animo creativo e renderne partecipe il lettore. Ora se si prende il piacere, si vede sin dalle prime pagine che il gioco introspettivo del protagonista si sdoppia in una poetica delle corrispondenze, della specularità emotiva tra oggetto e soggetto. “gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico danno alle cose un’anima sensibile e mutabile come l’anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, né colori, né suoni, né profumi, un simbolo trasparente, l’emblema d’un sentimento o d’un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazione di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in questi spiriti un’angoscia”. E’ inutile avvertire, tanto il ricordo è palese, che i colori, i suoni e i profumi riproducono la triade di Correspondances, così come risulta evidente, nello stesso tempo, che l’effetto dannunziano si limita a una “reverie” associativa. Senonchè, una volta riconosciuto il suo salto di potenziale fantastico, bisogna anche prendere atto della presenza doviziosa di questo motivo lungo tutto il romanzo, dal “paesaggio” intorno allo Sperelli che divenne “per lui un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che lo guidava attraverso il labirinto interiore” alle “segrete affinità” che “egli scopriva tra la vita apparente delle cose e l’intima vita dei suoi desideri e dei suoi ricordi”, dalla “rispondenza” che trasfigura il reale in “immagine sognata della scena reale” e in ombra di una “vita interiore” alla “concordia dei profumi illanguiditi dall’autunno” che “pare come lo spirito e il sentimento di quello spettacolo pomeridiano” o alla “visione” di una “luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose possono essere visibili lontani per un irradiamento che si prolunga nelle loro forme”. Nel Trionfo della morte vengono in primo piano tutte le parole chiave o la cultura simbolistica, con una tonalità entro cui si avvertono i fermenti di rapporti inventivi più personali. Non si pensa tanto alla “selva di simboli”, al “cielo di pure astrazioni”, che in fondo servono solo a qualificare un’”anima religiosa, inclinata al mistero”, quanto alla “simpatia” con le cose , alla “facilità” di “comunicare con tutte le forme della vita naturale e di trovare infinite analogie tra le esperienze umane e gli aspetti delle cose più diverse”, al tendersi dell’”attenzione” per “rintracciare qualche viva rassomiglianza tra il suo essere e la natura circostante”, ai “segni ed emblemi, d’un’altra vita” , sotto la “superficie opaca” della coscienza, al “ frammento visibile d’un mondo allegorico ideato da un teurgo”. La simbiosi con l’arte wagneriana, da cui dipende anche l’iniziazione al “ritmo” e il “mistero” di un antico rituale ctonio, allarga le corrispondenze analogiche delle “sinfonie crepuscolari”, delle “essenze nascoste” e dei “simboli immateriali” dove la luce è musica e la musica luce, dove i “colori” e i “profumi” fluttuano tra suoni, e acuisce il brivido confuso della percezione alle soglie di un universo “chimerico” interno all’uomo: dall’”odore e il pallore di qualche primavera dissepolta” che poi è una citazione del poema paradisiaco, si giunge così al “fiato della primavera” che esaltano “due mazzi di violette” e al “profumo stridulo e pur molle” di una pelle giovane. Il sogno del mito, congiunto a quello del teatro, domina anche il fuoco, ma sposta l’asse dei simboli “immateriali” che circolano musicalmente nel poema romanzesco verso “il senso dionisiaco della natura naturante” e verso le “analogie” di una “bestialità primitiva” la quale poi è a sua volta una metafora, come aveva già intuito il nostro Serra, un esercizio di finzioni e di travestimenti poiché l’intelligenza narcisistica possa godere del proprio corpo e della sua ricchezza sensoria, di quella che viene designata dalla “creatura notturna” come la potenza di fecondazione e di rivelazione”, la “vita iperbolica” di un “allucinazione febbrile”. Sulla vecchia matrice delle affinità simboliche si sviluppa intanto l’idea magica della poesia che è una “metafisica pratica” il cui ritmo, come nella musica, sta “nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue”, cioè nel “silenzio musicale” di un’”atmosfera vivente e misteriosa”. Nel suo inventarsi come danza e trasognamento della fantasia, sul fondo del corpo e della sua fertilità vegetale, la sensazione giunge a essere conoscenza, non dell’ignoto e del nuovo che esigono una discesa agli inferi, ma del mistero che si cela nel “sogno delle cose”, dell’”enigma visibile” nell’istante in cui “l’anima si fa pelago del rimembrare”, dell’Infanzia lontana e perduta, che interroga la terra e parla con le acque. Ed è proprio la visione del sogno dove, dice Valéry, le cose che vediamo ci vedono come noi le vediamo, quasi per un’equazione magica. Dal sortilegio musicale del corpo nasce insieme una sorta di scrittura oggettiva, un linguaggio di “segni” come quelli che il vento scrive sulla “docile sabbia” con le “penne dell’ala”, nel lucido limbo dell’estate. A guardare bene, il mito di Undulna si trasforma nel mito della scrittura, fuga di segni, di accordi e di pause entro le sequenze delle cose, fascinazione mimica di analogie in cui si prolunga il brivido della materia, il delirio artificiato della favola.