Natura e poesia in Pascoli

Si osservino le congruenze fra i passi che abbiamo intitolato La nascita della poesia e L’Iliade (in fase di PUBBLICAZIONE); particolarmente importanti perché il Pascoli vi tratteggia i caratteri fondamentali della poesia degli Antichi, che rimane a suo avviso, modello d’ogni poesia. Se, infatti, essere poeta significa ritrovare in sé il “fanciullino”, il primitivo stupore davanti alle cose, l’imposizione ad esse di un nome che le lega per sempre alla vita della coscienza, e significa, in sostanza, ritrovare la perenne “infanzia” dell’animo, questa condizione appare al Pascoli spontaneamente e nativamente vissuta dai primi poeti, e cioè dagli “Antichi”. Chiameremo i due passi A e B. Osserviamo il primo. Esso afferma che la poesia nacque come risposta dell’uomo al mormorio incessante della natura intorno, come forma d’un processo di fusione/distinzione con essa. Con la parola poetica, col canto l’uomo riflette ed emula la “voce” delle cose, l’assume nella chiarezza della coscienza, costruisce un’idea del mondo su cui regolerà il suo spirito e la sua vita. Il passaggio delineato del brano in questione è: voce emula di quella delle cose – musica – parola – canto; e quest’ultimo, cioè la poesia, come attesta il brano delle origini riportato, traduce il suono in idea, ossia in rappresentazione mentale. Questa, a sua volta, in quanto fonda la natura dell’esserci, la presenza dell’uomo alle cose, diviene una sorta di mito. Coglie, infatti, il movimento puro ed esemplare della realtà. Questo appare confermato dal passo B. Se A parla dell’origine della poesia lirica, B parla dell’origine dell’epopea antica, del racconto mitico che configura esemplarmente la vita umana come svolgimento, come storia. Anche qui giungiamo a una tra svalutazione mitica. Dire che nella guerra di Troia cantata dai poeti si esprime un dramma del cielo veduto dalla terra e incarnato poi in un evento della storia umana, significa riconoscere a) che ogni vicenda umana è strettamente esemplata su modelli di natura; b)che questi modelli normativi dell’essere e dell’accadere hanno una dimensione mitica: sono, cioè immagini significative che rivelano certe costanti strutturali sottese a ogni forma dell’essere e dell’agire, della natura e della storia. Con queste posizioni concordano le idee espresse nel Fanciullino, allorché il Pascoli afferma che la poesia esprime a)”la psiche primordiale e perenne” b)il sorriso e la lacrima già esistenti nelle cose; o nel sabato in cui parla del poeta come di colui che, con una sorta di raggi X, scopre nelle cose le “essenze celate”: il ritmo puro e le strutture in fondo dell’esistere. Si possono unire a questi testi I due fuchi, in cui si riconosce che opera della poesia è la fondazione del mondo umano, riflesso, a sua volta, nella coscienza profonda della “natura”, ossia della vita cosmica cui l’uomo partecipa intimamente e totalmente, entro la quale, insomma, si definisce. Per questo aspetto il Pascoli si distingue dal simbolismo europeo. Mentre ne assume prospettive gnoseologiche e di strutturazione poetica, egli resta fedele alla natura come fonte oggettiva e ispiratrice del canto, non crede al superiore arbitrio della mente che si arroga il compito di ricreare il mondo fenomenico. La tematica profonda che si è cercato finora di adombrare spiega certi caratteri di Myricae, in primo luogo la costruzione di liriche rapide e incisive, apparentemente impressionistiche, dove si rappresenta, in scorci rapidissimi, un’avventura di sempre del paesaggio. Uno dei caratteri più originali del Pascoli è l’isolare questi brevi frammenti della vita come se fossero la totalità; e realmente lo sono, per lui, in quanto manifestazioni concluse nella realtà della natura, del suo esistere come in un eterno presente, o meglio nei gesti o nelle cadenze della perenne metamorfosi che coinvolge tutte le cose e altro non è se non il manifestarsi dell’esistenza cosmica. Inseriamo nella considerazione altri testi, e cioè Alba festiva (A), Dialogo(B), Vespro (C). A, attraverso apparenti onomatopee, che sono, in realtà, immagini foniche e anche simboliche della vita universa, suoni, dunque,che si trasformano in “idee” o rappresentazioni mentali, scope la reversibilità di morte e vita nel suono delle campane che sono segnale di festa e di trapasso, di intensità e declino del vivere. La rivelazione giunge attraverso un suono “naturale” che suscita idee o forme della vita, cioè del nascere e del morte, della perenne metamorfosi. Le cose, i suoni, sono gesti della natura: miti o emblemi del destino. In B troviamo invece, attraverso le figure dei passeri e delle rondini, esemplato un altro momento del ritmo vitale: permanenza (passeri) e avventura(rondini),la gioia del volo e la dolcezza d’una fedeltà alla vita che non muta. In C, infine, abbiamo un mito di fondo di Myricae: il mormorio delle cose è continuato e ripreso del canto della fanciulla, che, a sua volta, rifluisce nella campagna: ma prima sembra avere “tradotto” e ricondotto al canto unitario di questa il pullulare d’una stella, il suono della campana che scandisce le opere e i giorni dell’uomo. A questa ispirazione corrisponde coerentemente uno stile, e prima, una nuova scelta linguistica; che potremmo dire l’originalità del Pascoli è nella sua posizione nuova davanti al mondo e davanti al linguaggio, come avviene per ogni poeta autentico. Più specificatamente, diremo che per il primo aspetto la sua poesia ha cercato di ridonare un contatto immediato con la natura, con la dialettica di persistenza e metamorfosi che si è fin qui cercato di definire. Per il linguaggio, converrà rimeditare quanto ha scritto il Contini sullo sperimentalismo linguistico pascoliano, nel saggio sul quale ritorneremo. Le conclusioni sono:
a) Il Pascoli usa, oltre al linguaggio della comunicazione, quello pre-grammaticale e quello post-grammaticale o, in qualche modo, specialistico: dai latinismi e grecismi dei Poemi conviviali, al dialetto lucchese per designare gli oggetti della vita contadina, al miscuglio italo-americano degli emigranti;
b) Tale sperimentalismo, che rifiuta una lingua unitaria, significa che “il rapporto fra l’io e il mondo in Pascoli è rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale”. Si potrebbe più precisamente dire che è critico il rapporto del Pascoli con la cultura ereditata; la ricerca sperimentale nel campo della lingua poetica indica quella d’un rapporto nuovo e non convenzionale con la realtà. E’ questa un’ansia tipicamente novecentesca, nel senso che si è fatta sentire in modo particolarmente intenso, fino a divenire, di fatto, una tematica di fondo, in un tempo di grandi trasformazioni che hanno coinvolto, come già s’è detto, l’idea e la rappresentazione del mondo e l’organizzazione della vita sociale.

Analisi e commento de “La tessitrice” di Giovanni Pascoli. (da I canti di Castelvecchio)

Mi son seduto su la panchetta
come una volta … quanti anni fa?
Ella, come una volta, s’e’ stretta
su la panchetta.

E non il suono d’una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.

Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d’un cenno muto:
Come hai potuto?

Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a se’.
Muta la spola passa e ripassa.

Piango, e le chiedo: Perche’ non suona
dunque l’arguto pettine piu’?
Ella mi fissa timida e buona:
Perche’ non suona?

E piange, piange — Mio dolce amore,
non t’hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.

Morta! Si’, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so:
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormiro’.

Struttura metrica:
tre STROFE di sette versi e una di quattro. Le prime tre sono composte di tre quinari doppi ABAa, CBC (il 2° e il 4° tronchi). Ma le assonanze, le ripetizioni, le riprese aggiungono allo schema ritmico una nuova e suggestiva armonia.

Breve analisi del Testo

V1-2: non rievoca la casa testimone dell’amore antico, ma quella PANCHETTA soltanto, sulla quale sedette accanto alla fanciulla.
V3-4: riaffiora, dal fondo della memoria del poeta, il fantasma di Lei, non l’immagine però del suo viso, ma un gesto (s’è stretta) che denota la sua pudica femminilità. Il quarto verso determina come una sospensione ritmica, dopo la quale s’effondono con un canto, più abbandonato i due seguenti.
V5-6: tutta la lirica è immersa in questo silenzio, appena increspato da parole non pronunciate che riecheggiano nell’anima assorta. SOLO…PIETà: il sorriso suggerisce la memoria dell’amore lontano; ma è divenuto tutto pietà: per la vanità di quel sogno. V7: LA BIANCA SPOLA: non “candida”, come poteva essere rievocata in una fantasia d’amore, ma “bianca” è la mano di una morta. Il gesto (lascia la spola) è la ripetizione di quel antico, quando ella interrompeva il lavoro per ascoltare le parole del poeta. Ma il verso, così isolato dagli altri, dà al gesto un aspetto irreale, fantomatico; è un ripetersi di quel gesto, ma meccanico e senza più vita.
V10-11: la fanciulla riecheggia le parole e il pianto del poeta.E’ un dialogo solo apparente. D’UN MUTO: non parole, ma un’inflessione appena percettibile del viso.
V12-14: E’ forse la terzina più suggestiva: il pettine muto, la spola muta, quel movimento senza rumore, danno veramente il senso della morte, d’un ricordo fatto di gesti uguali ma esangui, di una parvenza funerea di vita; LA CASSA: <<la parte mobile del telaio che contiene il pettine, per cui passano le fila dell’ordito, e con cui si percuotono e si serrano le fila della trama”.
V24-24: la tela tessuta un tempo dalla fanciulla per il lenzuolo nuziale, diviene il sudario dov’ella giacerà si accanto al poeta, ma nella morte, che è vista come un dormire nel sonno del nulla.

Breve commento al Testo

Il ritorno a S. Mauro assume, dunque, un carattere di conclusione, di ritorno alle origini: cioè alla fanciullezza e alla giovinezza infrante delle esperienza sconvolgente della morte. I suoi morti, il poeta che per tutta la vita ha portato in sé, riaffiorano dai gorghi della memoria; il padre, la madre, il suo io fanciullo e la tessitrice di questa poesia, che gli ispirò il primo desiderio d’amore. Ma questi morti non sono ricordo nostalgico e immagine inconsunta di giovinezza, com’è la Silvia leopardiana; sono ombre esili, dipinte d’un vago pallore di fantasmi, d’un colore evanescente eppur quasi fisico di morte: segno d’un angoscia ancora non consumata, d’uno sgomento rimasto vivo nel cuore e nei sensi dalla prima rivelazione del nulla in cui precipita la vita. Così qui il dialogo, ma in realtà monologo, del poeta con la tessitrice, si conclude con un immagine funerea. Ella tesse il funebre sudario, nel quale dormirà con lui un sonno eterno. La rimembranza d’amore culmina in una fantasia di morte: la vita appare un brillare fugace fra abissi d’ombra.

Analisi e commento de “Le rane” di Giovanni Pascoli. (da I canti di Castelvecchio)

Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz’aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.
Qual è questa via senza fine
che all’alba è sì tremula d’ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito?
chi svolge dal cielo i gomitoli
d’oro?
Io sento gracchiare le rane
dai borri dell’acque piovane
nell’umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d’un treno
che va…
Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz’eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo; mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.
Per l’aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!
E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s’allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà…

Struttura metrica:
Due gruppi strofici, composto ciascuno da due strofe di otto versi (sette novenari e un ternario ABABCDDc) seguiti da una di sei (cinque novenari e un ternario trono: EEFGGf)

Commento e note al testo
V1-2: HO VISTO: L’espressione, ripetuta al v3, dà il senso dell’improvviso esultare del cuore, quasi d’un ansioso afferrare le cose care d’un giorno. Si nota anche l’intensità squillante di quel colore rosso, immagine centrale di due versi.
V5-6: E…VERDE: e ho visto i pioppi distendere a mezz’aria una frangia (penero) verde. Dice man mano perché è un filare di pioppi lungo la via che si snoda verso un’indefinita lontananza, quasi secondando il libero vagare della fantasia del ricordo. V11. CANAPINE: uccelli frequenti nelle piantagioni di canapa.
V15-16: GOMITOLI D’ORO: indica le note limpide e chiare, connesse in un ciclico canto, delle allodole, secondo il Pietrobono; secondo altri, il loro volo a spirali nel sole. La sillaba finale “li” va computata metricamente nel verso seguente.

V20-22: E…VA: il canto delle rane pare lo strepito d’un treno. L’immagine sarà ripresa e approfondita alla fine. Ma fin d’ora quel “nero” allude a un senso di tristezza che contrasta con il “lume sereno” diffuso in questa prima rievocazione della patria; una nota ribadita dal “che va”, che dà il senso d’una meta riconquistata e al tempo stesso perduta.
V.23-38: son tutte voci e colori indefiniti che dissolvono le cose in un palpito di dolcezza e malinconia. E’ questo un paese di memoria e di sogno, paese del tempo perduto che può rivivere solo nell’illusione, nella trasfigurazione del ricordo. E illusione è il ritornare è il rimanere, il riposare lì, ma il Pascoli s’abbandona ad essa per rivivere l’incanto della giovinezza.

Il ciclo il ritorno a S. Mauro, posto alla fine dei canti di Castelvecchio, ma iniziato nel ’97, nacque da un ritorno tutto ideale del poeta nella sua terra, da cui trassero ispirazione le rane, La tessitrice, la messa, seguito poi, da un ritorno reale, nel quale maturarono Casa mia, Mia madre, Commiato, e, più tardi, Giovannino, Il bolide, Tra San Mauro e Savignano. E’ un poema di memorie, incentrato sul colloquio tra il poeta e la madre, presso la casa e i luoghi dell’infanzia lontana. S’effondono in esso i ricordi del tempo perduto, avvolti da una patetica nostalgia che li rende attuali e, insieme, da un’eco di dolore per quello che la vita poteva essere e non fu. La lirica le rane apre la breve sinfonia. E’ una poesia sospesa fra il balzare vivido del paesaggio d’un tempo, riscoperto con una gioia velata d’ansia e malinconia, e lo “strepere nero” del treno che corre e non s’allontana, simbolo della vita che scorre e tuttavia resta immota, perché irrisolta resta il suo problema centrale. La ricerca ansiosa e vana di felicità.

Analisi e commento de “L’imbrunire” di Giovanni Pascoli. (da I canti di Castelvecchio)

Cielo e Terra dicono qualcosa
l’uno all’altro nella dolce sera.
Una stella nell’aria di rosa,
un lumino nell’oscurità.
I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l’ora s’arresti,
nell’attesa di ciò che sarà.
Tre pianeti su l’azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.
Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.
Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c’è dentro un tumulto giocondo
che non s’ode a due passi di là.
E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d’ogni focolare.
La Via Lattea s’esala nel cielo,
per la tremola serenità.

Struttura metrica:
quartine di decasillabi, i due primi con accenti di 3à e di 9à più un altro quasi fisso, di 5à.; gli altri due con accenti di 3à 6à 9à. Le rime uniscono le quartine a coppia: ABAC, DBDC.

Breve commento

A torto si è voluto definire il Pascoli poeta delle piccole cose, dal momento che egli non ha cantato soltanto gli oggetti umili di un’esperienza quotidiana o un campestre, ma anche gli spazi sterminati dei cieli e la vicenda d’incessante metamorfosi del cosmo, quali egli era rivelata dalla scienza del tempo. In questa lirica può, anzi, essere indicato un significativo contemperamento delle due tematiche, con la riduzione del cosmico al quotidiano e con la dilatazione della vita d’un piccolo borgo a quelli degli astri. La poesia “cosmica” del Pascoli è spesso dominata dalla visione di grandi cataclismi, connessa al tema della complementarità di morte e vita, e anche un senso ossessivo della morte e del mistero, nonostante il tentativo di rigore scientifico che si ritrova, ad esempio, in un lungo poemetto dei Canti di Castelvecchio, Il ciocco. Qui, invece, si ha una percezione immediata: anche la terra fa parte del cielo, né vi è opposizione fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: dovunque si effonde il senso della vita, e la poesia lo celebra nel palpito d’un piccolo borgo come in quello degli astri grandi e lontani. E’ una delle poche liriche pascoliane in cui l’infinito e l’immensità del cosmo assumono un carattere di presenza serenatrice.

Breve analisi del Testo

V1-4: il colloquio fra cielo e Terra nel crepuscolo è accennato dal corrispondere del primo apparire di una stella nel cielo con l’accendersi d’una prima luce nel borgo.
V5-8: il colloquio fra Celesti e Terreni è tutto di fantasia; o meglio, è una analogia che nasce dalla corrispondenza di quel primo vibrare di luci (vv3-4) e dal fatto che nel crepuscolo la terra si annera e sembra protendersi nell’attesa della notte e delle miriadi di stelle che le ridonano il senso d’una sua appartenenza al cielo, cioè alla vita cosmica.

V9. AZZURRO GORGO: il cielo stellato è visto come un gorgo o vortice dei mondi: quasi un abbisso per chi lo contempli dalla terra. Ai tre pianeti corrispondono tre finestre del borgo illuminate.

V11-15: continuano le corrispondenze: nel borgo silenzioso vi sono sette case cui sembrano corrispondere, nel cielo, le sette stelle delle costellazioni delle Pleadi. Il parallelo continua nei versi che seguono: LE CASE NERE corrispondono alle BIANCHE GALLINELLE; SIRIO, ALGOL, ARTURO: stelle rispettivamente della costellazione del cane di Perseo, di Boote.
V17-20: la distinzione fra le case e le stelle tende a scomparire: il Pascoli parla qui della vita domestica chiusa in ciascuna casa, suggerendo la possibilità di analoghe forme di vita nelle stelle sconosciute. Così, nella quartina finale, il fumo dei focolari erra fra i mondi, come la Via Lattea nella serenità dei cieli.

Analisi e commento di “Commiato” di Giovanni Pascoli (Da I canti di Castelvecchio)

Una stella sbocciò nell’aria.
Le risplendé nelle pupille.
Su la campagna solitaria
tremava il pianto delle squille.
—È ora, o figlio, ora ch’io vada.
Sono stata con te lunghe ore.
Tra questi bussi è la mia strada;
la tua, tra quelle acacie in fiore.
Sii buono e forte, o figlio mio:
va dove t’aspettano. Addio!
. . . Venir con te? Ma non è dato!
Sai pure: m’han cacciata via.
Ci fu chi non mi volle allato
nel mondo, così larga via;
chi non permise che, sai pure,
stessi con le mie creature.
. . . Tu venir qui ? Viene chi muore . . .
E tu vuoi dunque venir qui.
Sei stanco: è vero ? Hai male al cuore.
Quel male l’ebbi anch’io, Zvanî!
È un male che non fa dormire;
ma che alfine poi fa morire—
Si chiudevano i casolari.
Cresceva l’ombra delle cose.
Ancor tra i lontani filari
traspariva color di rose.
—Ma dimmi, o madre, dimmi almeno,
se nel tramonto del suo giorno
tuo figlio si deve sereno
preparare per un ritorno!
se ciò che qualcuno ci prende,
v’è qualch’altro che ce lo rende!
Ricorderò quella preghiera
con quei gesti e segni soavi:
tuo figlio risarà qual era
allora che glieli insegnavi:
s’abbraccerà tutto all’altare:
ma fa che ritorni a sperare!
A sperare e ora e nell’ora
così bella se a te conduce!
O madre, fa ch’io creda ancora
in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce!
O madre, a me non dire, Addio,
se di là è, se teco è Dio!—
Sfioriva il crepuscolo stanco.
Cadeva dal cielo rugiada.
Non c’era avanti me, che il bianco
della silenziosa strada.

Centrali, nella sezione dei Canti di Castelvecchio intitolata il ritorno a S. Mauro, sono tre le poesie dedicate all’incontro con la madre, Casa mia, Mia madre e Commiato che ne è la conclusione. Ha qui la rappresentazione di quel colloquio del poeta dei suoi morti, che è materia di molte sue liriche. Le sventure domestiche rimasero sempre per il Pascoli l’emblema dell’inesplicabilità angosciosa della vita, l’espressione della sua ansia tormentosa e insoddisfatta di una fede che giustificasse la morte e il dolore. La conclusione di Commiato, con quel senso di angoscia metafisica, d’un buio implacabile nel quale s’infrangono e domande ansiose sul perché della vita, riconduce all’esperienza centrale, poetica e umana, del Pascoli

METRO: tre quartine di novenari (ABAB) che contengono l’esile trama narrativa della visione e la sua ambientazione fantastica e suggestiva, inframezzate da due gruppi di tre sestine di novenari (ABABCC) che contengono le parole della madre e del poeta. I novenari hanno una misura ritmica e una caduta d’accenti nuova, rispetto alla tradizione, soprattutto nella parte dialogata.

V2. Le: al fantasma della madre, già evocato nelle due liriche precedenti del gruppo. Questa e le altre due quartine sono il momento liricamente più alto della poesia: lo sbocciare d’una stella avviva le pupille della morta, le dà uno slancio alla vita, prima che ella precipiti ancora nel nulla, e il pianto tremulo e mesto delle campane nell’ora di notte, quando si prega per i defunti, aumenta il senso di solitudine e di silenzio della campagna-

v.7-8. Tra..fiore: Ella deve ripercorrere la via del camposanto, segnata dalle piccole siepi di bosso; il figlio deve tornare su quella fra le acacie fiorite, simbolo della vita
v.10: dove t’aspettano: allude alle sorelle
v11. Venir…te: ripete la domanda rivoltale accoratamente dal figlio
v13. e sgg. La madre di Pascoli morì di dolore un anno dopo la morte del marito; anche la sua morte fu dunque implicitamente voluta e causata dall’assassinio del padre del poeta.
V20. Zvanì: diminutivo dialettale del nome Giovanni. Il discorso della madre si svolge su toni teneri e accorati, e inoltre volutamente antiletterari, propri di un’intimità familiare. Anche il ritmo del verso tende a dare il senso d’un parlato…
v.27-44.: La risposta del poeta è un’accorata e quasi disperata invocazione alla madre perché gli ridoni la ingenua fede religiosa che aveva da fanciullo e che ora ha perduto. Essa solo potrebbe dargli conforto, presentandogli la morte come il ricongiungimento con le persone care e rendergli la certezza dell’esistenza di Dio che giustifichi il dolore e la morte.
V28-30: se..ritorno: se, ora che è giunto alla vecchiaia, tramonto della vita, il poeta possa serenamente prepararsi alla morte, sentita come ritorno alle origini dello stesso vivere
V31-32. Il Pascoli pensa ad un’altra vita, nella quale la presente angoscia si riscatti in gioa
V39-40: nell’ora della morte, così bella se riconduce a te
v. 45-48. Quest’ultima quartina, dopo l’ansia di una fede, presente nelle tre strofe precedenti, riconduce il Pascoli all’angosciosa perplessità di fronte al mistero che non s’illumina.