Analisi, parafrasi e commento di “Arsenio” di Eugenio Montale. (da Ossi di Seppia)

I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

E’ il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…

Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.

Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.

PARAFRASI
1-5. turbini: i turbini di vento preannunciano la tempesta che sta per abbattersi sulla città marina, i cavalli incappucciati, quelli delle carrozze pubbliche, che stazionano presso gli alberghi. Hanno la testa coperta da cappucci impermeabili. Annusano la terra: come sempre quando presentano la tempesta. Nota il senso di sospensione e di attesa di questo paesaggio, e anche la contrapposizione fra il turbine che s’addensa nell’aria, preannunciando la tempesta, e i vetri luccicanti degli alberghi. Da un lato hai le cieche forze cosmiche, dall’altro il povero mondo umano, colto nella torpida esistenza della città balneare.
6-8. tu: Arsenio, cioè il poeta. Frequente, negli ossi di seppia, il dialogo del M. con se stesso. Piovorno: l’aggettivo indica il cielo pieno di nuvole acquose. Acceso: illuminato dai lampi.
8-11. in cui…. Castagnette: la serie dei tuoni, a intervalli, simili a schiocchi di nacchere, sembra sconvolgere la trama delle ore uguali e monotone del pomeriggio.
12. e’…seguilo: gli scoppi del tuono sembrano segnare un’orbita diversa del tempo, un diverso cammino delle ore, strappandole al loro corso monotono, inerte. Per questo il poeta esorta Arsenio a seguire questa voce nuova, che forse lo condurrà verso una realtà meno assurda di quella usuale.
13-14. “Discendi verso l’orizzonte che è sovrastato da un plumbea tromba marina, alta sui gorghi del mare”.
15-17. salso… nubi: nembo salmastro d’acqua marina che l’elemento ribelle ha sollevato fino alle nubi. Il cielo e il mare si confondono, la natura appare nella sua violenza selvaggia.
17-19. fa…alghe: fa che il tuo passo scricchioli sulla ghiaia e che il tuo piede s’inciampi in un viluppo d’alghe, facendoti precipitare fra le onde. La discesa d’Arsenio al mare è pervasa da un desiderio d’annientamento: è una fuga dalla vita assurda verso la differenza del non essere.
19-23. “e’ forse quell’istante, da tempo atteso, che ti può liberare dalla pena di portare a compimento il tuo viaggio umano, la tua vita”. Anello… immobilità: la vita è l’anello d’una catena fatale che ci lega all’esistenza cosmica come a un destino, uno scorrere del tempo nel quale restiamo immobili attendendo la morte. E la consapevolezza di questa immobilità ci procura la vertigine del delirio, la brama di precipitare nell’abisso del nulla.
24-33. e’ un attimo di tregua. Il poeta rivolge un ultimo sguardo alla vita e alle sue suggestioni, alle sue oasi di pace nelle quali sembra balneare la luce d’una speranza; ma, nel contempo, scopre l’illusorietà di tutto questo. Donde, all’inizio della strofa seguente, la ripresa dell’esortazione all’annientamento.
24-27. il getto tremulo: lo zampillare tremulo dei violini dell’orchestrina, povero tentativo di esprimere una gioia che l’impeto rovinoso dei tuoni sommerge.
27-30. la tempesta…. Prossima:la tempesta può essere dolce quando la stella della canicola sgorga bianca nell’azzurro cielo estivo fra le nubi non ancora addensate e la sua luce fa pensare ancora lontana la sera, che invece è vicina.
30-33. se…. Silenzioso:se anche il fulmine incide il cielo della sera, può allora essere visto come un albero d’oro, entro la luce delle nuvole che si tingono di rosa. E allora lo scoppio lontano di esso può confondersi col rullo del tamburo delle orchestre tzigane che suonano negli hotels.
34-39. discendi…acetilene: riprende la discesa di Arsenio verso il mare, in mezzo alla tenebra della tempesta imminente che muta il meriggio in una notte cupa, interrotta solo dai globi delle lampade di carta accesi lungo il mare e dondolanti, mentre al largo cielo e mare sono un’ombra sola, interrotta dai lumi ad acetilene delle barche da pesca.
39-44. è l’esplodere della tempesta; l’acqua si riversa violenta dal cielo.ti sciaborda: “verbo tipicamente montaliano, che qui sta indicare il liquido disfacimento delle cose”. Le tende molli: quelli degli chalets. le lanterne di carta, espressioni d’una gioia vacua, sono disfatte dalla forza cieca della natura.
45-59. mentre Arsenio si protende verso la tempesta e il gorgo dell’annullamento, viene riafferrato dal desiderio della vita, ritorna nel mondo umano. Ma è un precipitare in un altro gorgo, quello dell’esistenza quotidiana, assurda e senza luce, che non è un vivere, ma un continuo morire in un’angosciosa solitudine.
45-46. sperso…. Grondanti: mentre sei là disperso, fra le sedie di vimini e le stuoie grondanti di uno chalet. La proposizione reggente è:la tesa…. Volge.
46-50. giunco…. Soffocati: come un giunco che trascina con sé le sue radici viscide, non mai del tutto staccate dall’esistenza, e mentre, nello stesso tempo, tremi di vita, continui, cioè, ad essere disperatamente attaccato alla vita e ti protendi verso il nulla.
50-54. la tesa…. Morti: mentre Arsenio è perplesso fra la vita e la morte, lo riafferra l’onda del destino, che da sempre lo ha in sua balia; lo riprende la realtà della vita, ma per configgerlo ancora fra le sue vacue parvenze e, sostanzialmente, nella gelida solitudine che è propria della massa degli uomini, “i nati-morti”, conficcati tutti senza speranza nel ghiaccio dell’esistenza assurda.
55-59. e se….astri. a tratti un gesto, una parola di solidarietà umana ci sfiorano, ci fanno intravedere la possibilità di uscire dalla solitudine, di poter comunicare con gli altri, e allora la catena del tempo che ci travolge inesorabile nel vuoto sembra dissolversi. Ma è un attimo: quel segno d’una vita nuova è subito strozzato. Il vento lo disperde fra gli spazi interplanetari, nel vuoto dell’universo, insieme con le ceneri degli astri defunti.

Breve Commento

Arsenio esprime il pessimismo storico e cosmico di Montale. L’uomo vi appare come una figura senza volto, non un personaggio, immerso da un lato in una civiltà assurda e livellatrice, dall’altro in un universo altrettanto privo di significato, mosso da un destino che, come una ruota fatale, trascina ogni cosa, con una forza cieca, verso la distruzione. A tratti(vv. 55-59) sembra di poter uscire da questo ingranaggio, di poter approdare a una verità più autentica, a un colloquio con l’altro dal quale possa emergere un nuovo mondo umano, riscattato dal nulla. Ma è un illusione breve; ognuno è chiuso nella propria solitudine, ombra, non persona, e la sua esistenza precipita negli spazi sterminati e muti del cosmo come le ceneri dei mondi spenti. La tempesta che piomba sulla piccola città, fra gli emblemi sterili d’una gioia mentita, l’avventura d’Arsenio, cioè la sua discesa verso il mare sul quale incombe la tromba marina fanno balenare per un istante la possibilità di un altro ordine di eventi, non più soggetti alla necessità ferrea, sembrano infatti, configurare una diversa “orbita” per il cammino terreno dell’uomo, un suo ritorno alla forza vitale della natura, ritrovata intatta nel suo scatenarsi nella tempesta, fuori della ferra catena del destino o della necessità che isterilisce di continuo la vita umana e quella cosmica; e allora l’inciampare nel viluppo delle alghe potrebbe significare l’uscita dalla catena delle ore uguali e senza scopo, da quell’andare in cui il delirio della passione cela la sostanziale immobilità di un’esistenza sempre frustrata. La tempesta diviene, a questo punto, un simbolo ambiguo. Da un lato appare come segno e promessa d’un oltremondo, d’una liberazione della vita in autentica che travolge l’uomo e le cose; ma poi essa si mescola alla vicenda fatua della città balneare, ai timpani degli tzigani; e la sua stessa violenza, promessa di distruzione e di metamorfosi, diventa emblema della distruzione di sempre, della vanificazione continua dell’esistenza. L’onda che riafferra Arsenio lo riconduce fra gli aspetti assurdi e inconsistenti della vita, fondata sul vuoto: fra gli uomini che appaiono come “una ghiacciata moltitudine di morti”, immersi in un vivere, cioè privo di ragione e giustificazione. La lirica (1927) entrò nella seconda edizione degli Ossi(1928).

Analisi, parafrasi e commento di “Incontro” di Eugenio Montale (da Ossi di Seppia)

Tu non m’abbandonare mia tristezza
sulla strada
che urta il vento forano
co’ suoi vortici caldi, e spare; cara
tristezza al soffio che si estenua: e a questo,
sospinta sulla rada
dove l’ultime voci il giorno esala
viaggia una nebbia, alta si flette un’ala
di cormorano.

La foce è allato del torrente, sterile
d’acque, vivo di pietre e di calcine;
ma più foce di umani atti consunti,
d’impallidite vite tramontanti
oltre il confine
che a cerchio ci rinchiude: visi emunti,
mani scarne, cavalli in fila, ruote
stridule: vite no: vegetazioni
dell’altro mare che sovrasta il flutto.

Si va sulla carraia di rappresa
mota senza uno scarto,
simili ad incappati di corteo,
sotto la volta infranta ch’è discesa
quasi a specchio delle vetrine,
in un’aura che avvolge i nostri passi
fitta e uguaglia i sargassi
umani fluttuanti alle cortine
dei bambù mormoranti.

Se mi lasci anche tu, tristezza, solo
presagio vivo in questo nembo, sembra
che attorno mi si effonda
un ronzio qual di sfere quando un’ora
sta per scoccare;
e cado inerte nell’attesa spenta
di chi non sa temere
su questa proda che ha sorpresa l’onda
lenta, che non appare.

Forse riavrò un aspetto: nella luce
radente un moto mi conduce accanto
a una misera fronda che in un vaso
s’alleva s’una porta di osteria.
A lei tendo la mano, e farsi mia
un’altra vita sento, ingombro d’una
forma che mi fu tolta; e quasi anelli
alle dita non foglie mi si attorcono
ma capelli.

Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari
qual sei venuta, e nulla so di te.
La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari
dal giorno sparsa già. Prega per me
allora ch’io discenda altro cammino
che una via di città,
nell’aria persa, innanzi al brulichio
dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io
scenda senza viltà.

PARAFRASI
3. forano: che viene da fuori, dal mare. Il vento caldo e libeccio, soffia e poi sparisce.
4-9. cara…. estenua: o cara tristezza verso il soffio ormai estenuato, spento del vento. La relazione fra tristezza e vento è dato dal fatto che questo riconduce “l’ondata della vita”, per un breve momento, e poi è in procinto di sparire. Così la tristezza, sofferenza,e dunque non accettazione della vita e dei nati-morti, può essere paragonata al soffio vivificatore, ma anche al suo essere ormai estenuato. E….cormorano: e verso questo vento estenuato viaggia una nebbia, sospinta sulla rada dove il giorno esala le ultime voci, e si piega, in alto, un’ala di cormorano(uccello marino). Sono le ultime manifestazioni di vita del giorno.
10-18. la …. calcine: al lato della strada c’è la foce del torrente, povero d’acqua, ma ricco di pietre e calcine. Il torrente sterile significa la vita presente dell’uomo; ma anch’esso trapassa, senza soluzioni di continuità, dal fisico al metafisico. La lunga teoria di uomini e di carri diventa il cammino in fila indiana, monotono, dei nati-morti verso la fine della vita. E non più di uomini si tratta, ma di vegetazioni, cioè, dirà più avanti, sargassi, alghe, simbolo della spenta vita universa. L’ultima immagine richiama il dantesco “…. Sulla fiumana ove il mar non ha vanto”; ma lo stesso vale per “il cerchio che si chiude” e, più avanti, gli “incappati di corteo”, che richiamano il canto degli ipocriti, e altri spunti qua e là. Montale ha scelto la linea dantesca, piuttosto che quella petrarchesca, prevalsa per secoli nella nostra letteratura. d’impallidite…. rinchiude di vite impallidite di là dal confine che ci chiude nel suo cerchio invalicabile. E’ il confine della necessità terrena, che regola la nostra vita: di là da esso c’è il non conosciuto, che non possiamo concepire se non come nulla.
19-21. il cammino dell’umanità massificata è monotono e fedele alla carraia fatta di fango essiccato; non vi sono scarti, movimenti o tentativi di liberazione: tutti accettano passivamente la schiavitù alla vita non autentica.
22-23. sotto…. vetrine: sotto la volta celeste, di nuvole, che si è infranta, è discesa fin quasi a specchiare le vetrine. Anche qui c’è un oscillazione fra oggetto e significato; quel cielo infranto che rispecchia le vetrine fa pensare alla rottura d’ogni ricerca di giustificazione del vivere, chiuso in un piccolo commercio quotidiano fra gli uomini. Tuttavia, questo vivere nella massa anonima è alienante e non attenua la solitudine radicale dell’io.
25-27. e….. mormoranti: l’aria densa uguagli le alghe umane, che non vivono,né hanno movimento definito, ma fluttuano, incapaci di direzione, simile alle cannucce di bambù snodabili che si usava, allora, porre come tenda all’ingresso dei negozi.
28-29. solo…. nembo:la tristezza, come forma di resistenza alla vita/non vita, è l’unico presagio di vitalità nel nembo, nell’atmosfera di nebbia e nuvole basse scese sulla città.
30-32. e’ il ronzio che precede, nell’orologio a pendolo, il suono del’ora. Ma qui si deve pensare a un suo prolungarsi in un tempo indefinito d’inerzia.
33-36. e caldo…. appare: e caldo inerte nell’attesa spenta di chi ha perduto non solo la speranza, ma anche il timore su questa sponda che è stata sorpresa, e dunque soverchiata, da un’onda lenta, invisibile.
37-38. forse…. aspetto: e’ un improvvisa rinascita della speranza, autorizzata dalla tristezza come resistenza alla banalizzazione totale del vivere. Riavere un aspetto significa evadere dallo squallore della folla anonima prima rappresentata e ritrovare la propria individualità originale. La luce radente è quella del tramonto.
41-45. a lei…. capelli:il poeta tende la mano per afferrarla, e, come l’afferra, sente che un’altra vita diviene sua, come se quella fronda fosse l’involucro che contiene in se un’altra vita a lui tolta; e intorno alle sue dita non avverte più le foglie, ma dei capelli. Questa è la spiegazione “letterale” del passo; una spiegazione che, come avviene quasi sempre in poesia, spiega ben poco. Soprattutto poi quando, come nel caso di Montale, abbiamo una poetica del correlativo oggettivo che tende a cancellare l’occasione biografica, assumendola in una valenza mitica universale, di qui due diverse interpretazioni. Stabilito che questa fronda è, con un rovesciamento dell’antico mito di Dafne tramutata in alloro, una donna, e accettato il significato di salvazione che questa figura comporta, alcuni puntano sull’identificazione di lei con Arletta, una delle idealizzate figure femminili di Montale, presentata come morta giovane, e quindi come una Silvia o Nerina leopardiana. Pertanto a lei si riferirebbe l’espressione “la forma che mi fu tolta”. Per il Bonfiglioli, invece, detta forma è l’individualità del poeta, perduta, e ora ritrovata nel messaggio salvifico che viene dalla donna. Concordiamo con questa interpretazione, perché qui, come altrove in Montale, la figura femminile è interiorizzata, ed è pertanto parte viva dell’animo del poeta che in lei si specchia e si riconosce.
46-54. poi…. nulla:l’incontro-identificazione è dunque rivelazione di un attimo, presto svanito. Per i critici, che chiameremo realisti, si allude qui al fatto che la giovane è morta, ha ripreso la sua vita, in un ordine di esistenza diverso, ormai come dissolta fra gli ultimi baleni di luce del crepuscolo. Per il Bonfiglioli, invece “L’eros è qui, come in altre liriche degli Ossi, religione sacrificale. la donna, riconoscendosi nell’uomo come l’uomo si riconosce in lei, gli dà la propria vita per farlo vivere e per vivere in lui, o meglio, lo restituisce a se stesso e scompare”. Di fatto, l’incontro con l’altro è arduo e istantaneo e l’amore è un desiderio di comunione pur sempre precario, essendo ciascuno chiuso nella propria individualità e in un proprio destino. La donna può tuttavia pregare per lui, quando egli scenderà verso la morte, affinché possa affrontare il destino “senza viltà”. Questo pregare va inteso in senso tutto ideale, non immediatamente religioso; è l’immagine presentita dell’amore come libertà e identificazione vera della persona a infondere coraggio nella vita e nella morte; è un sussulto di autenticità che illumina una vita nata per il nulla.

Breve commento

Il pessimismo montaliano si approfondisce a partire soprattutto dalle ultime liriche degli Ossi, quelle aggiunte nella seconda edizione(1928), che formano un ponte verso la poesia delle Occasioni. Quello che prima appariva come una posizione personale di decadimento e fuga dalla vita, di incapacità di vivere la rivelazione balenata in un mitico sogno di adolescenza, diventa ora una condizione comune, in un presente di storia avvilita. L’atmosfera di vite sterili, di sargassi umani, di un anonimato totale che è, prima di tutto, incapacità di esistere originalmente come individui, avvicina questa lirica all’Eliot di Terra desolata, da poco presente alla cultura europea, alla testimonianza di una crisi totale di valori. Montale ritrova il segno dell’attuale dannazione nella folla spenta della sua città, in un grigiore della vita quotidiana senza scopo ne direzione. Qui l’ultima voce dell’individualità è la tristezza: un dir di no senza, tuttavia speranza, una resistenza passiva, anche se indomabile, al vuoto che da ogni parte invade l’esistenza, e si riflette nel vento e nella nebbia, nei negozi e nel chiacchiericcio informe della gente: in una strada, soprattutto in discesa che è il cammino dei nati-morti verso il nulla. L’unica possibilità di una pur limitata e precaria salvezza è l’apertura all’altro, l’amore, cioè; ed è questo l’incontro cui la poesia allude. Incontro con un tu che è, prima, la tristezza come evasione dal banale egoismo degli altri, dal trionfo, che essi sanzionano, della non-vita, poi una figura femminile, che diviene parziale salvazione; per lo meno richiamo all’interiorità vera, e consente di scendere “senza viltà” verso la condanna comune, la morte. Questa lirica e Arsenio rivelano una maturazione nell’arte montaliana. Il poeta ha appreso un procedimento allegorico – visionario in cui la calare la propria moralità, liberandola da ogni indugio intellettualistico,e tramutandola in immediata intuizione e scelta esistenziale. Si hanno così le metamorfosi da uomini in alghe, da fronda in donna pietosa; ma ancor più dense e creatrici di atmosfera sono la lunga teoria di uomini e animali verso il fiume; un aspetto dell’esistenza comune che assume una dimensione “metafisica” , diventa una figura del reale, della sua essenza scoperta come nulla. Lo stesso vale per le vetrine e i negozi, per tutto l’insieme di gesti in autentici cui è ridotta la vita. E’ stata indicata dalla critica la presenza di Dante sull’orizzonte immaginativo di questa lirica; ed effettivamente Montale ha qui descritto l’inferno dei vivi, abitato soprattutto da ignavi chiuso in un egoismo sterile.

Ossi di seppia: poetica e tematiche. (raccolta di poesie di Eugenio Montale)

La raccolta fu pubblicata nel 1925 da Pietro Gobetti, alle cui riviste Montale collaborava, condividendone l’impegno etico – politico di fondazione d’una cultura non provinciale, moderna e democratica. In effetti il libro, che è stato definito un “romanzo filosofico”, appare coinvolto nel dibattito ideologico del tempo, da Schopenhauer a Bergson al contingentismo di Boutroux. Ma è una filosofia tutta risolta in immagini che manifestano uno scavo personale del poeta, un complesso di faticati approdi conoscitivi. Montale accoglie il tema crepuscolare e palazzeschiano d’una poesia “dissacrata”, costretta a piegare sull’umile, sul quotidiano per ritrovare una possibilità di sopravvivenza in un modo alienato e ostile. A questo tema congiunge la superstite nostalgia d’una fusione con la natura, presentita nell’adolescenza, la delusione e il rimpianto della perduta armonia con le cose, e l’idea della poesia come superstite dignità. D’altra parte la coscienza della condizione umana presente, che diviene per lui quella di sempre, lo porta ad ammettere l’impossibilità per la poesia di offrire un alto messaggio di vita; donde la necessità che essa avverte di ripiegare su una testimonianza senza illusioni; anche se balena nel libro qualche momento fugace di speranza, come in Riviere, di sognata possibilità di ristabilire il colloquio perduto con la natura – vita. Il libro ha così una sua dialettica interna. Da un lato vi è la confessione d’impotenza, dell’incapacità del poeta di cogliere e rappresentare la vita nella sua autenticità: e allora lo scacco conoscitivo si fonde con quello espressivo, creando il mito d’un “ritmo stento” d’una poesia sempre inadeguata all’oggetto: di parole “petrose” che colgono la delusione e l’aspro tormento del vivere e oscillano fra volontà di canto e prosaicità. Dall’altro vi sono i brevi momenti di grazia, in cui la natura appare vicina a svelare un significato e gli oggetti si delineano nitidi, alludendo, nel contempo, alla possibile identificazione armonica fra uomo e mondo. Più in generale si può dire che la scoperta inautenticità dell’esistere è incentivo alla ricerca d’un riscatto poetico. Questo, tuttavia, permane pur sempre difficile ed episodico, richiede prima il passaggio per il cammino impervio della negazione, il riconoscimento della crisi etico – conoscitiva dell’uomo moderno. Prevale, in sostanza, nel libro, la coscienza della realtà come insondabile e incomprensibile, assimilabile, per questo, a una sorta di “solido nulla” leopardiano. Gli eventi e i gesti umani si rivelano dominati dal caso, la natura priva d’ogni razionalità, l’uomo sperduto nel caos della contingenza. In questa visione pessimistica si volle, più tardi vedere una reazione all’atmosfera oppressiva del fascismo. Ma tale motivazione non è convincente: la visione tragica monta liana è anteriore storicamente, e va messa in relazione, se mai, con una crisi ideologica e storica non solo italiana: Con la vicenda, cioè, di guerre e violenze, di civiltà alienata e alienante denunciata, allora, da altri scrittori, a cominciare da T.S. Eliot, la cui Terra desolata uscì nel ’22. Come attestano i componimenti usciti dopo la prima edizione degli Ossi, e compresi poi nella seconda (1928), I morti, Delta, Incontro, Vento e bandiere, Fuscello teso dal muro e Arsenio(che è del 1927), il pessimismo aumenta nella seconda edizione del libro, sovvertendo il primo finale, la lirica Riviere, in cui poteva balenare una speranza di riscatto, e rendendo, di fatto, dominante il tema della scoperta del “male del vivere”, della vita come seguito di atti privi di significato. La testimonianza poetica diviene sempre più l’unico tentativo di salvezza per l’uomo, che non riesce tuttavia a infrangere la cadenza ferrea d’un destino di vanificazione. Eppure proprio su questo sfondo nichilistico, fra il vuoto sempre incombente del non essere o dell’assenza e una sognata identificazione con a natura che significherebbe anch’essa una dissolvenza dell’individuo, gli oggetti della poesia monta liana acquistano una singolare intensità. Si è più volte parlato di paesaggi aridi e scabri degli Ossi, mettendoli in relazione col paesaggio ligure, sia con quello reale, sia con quello cantato dai poeti liguri coevi. Ma converrà piuttosto parlare di un originale creazione monta liana, d’un paesaggio che riflette e incarna una visione del mondo, d’una terra desolata e d’un dramma esistenziale che presenta analogie con la coeva cultura letteraria europea.

STRUTTURA

Ossi di seppia comprende ventitré liriche, raccolte in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Alcuni critici (ad esempio Mengaldo) hanno notato, nella struttura delle raccolte montaliane, un alternarsi di serie di liriche brevi e di testi più diffusi. Questo negli Ossi vale relativamente: più che di un susseguirsi di forme definite, si potrebbe parlare di un alternarsi musicale di movimenti più distesi e meditativi (come l'”adagio” di una sonata) e di sprazzi fulminei di immagini simboliche (come il “presto” o lo “scherzo”).

Metrica di Ossi di Seppia

Il tempo in cui furono scritti gli Ossi di seppia fu quello di futuristi e vociani, con la rottura del ritmo, della forma, della stessa struttura sintattica nei suoi componenti elementari. L’apparente distacco di Montale dagli eventi esterni – apparente in quanto egli seppe fare i conti con essi, trasformandoli alla luce delle proprie esigenze – si traduce in questa raccolta in una consapevole e misurata ricostruzione del verso nella sua forma “classica”. Montale sembra dirci che una poetica che abbia come oggetto la disgregazione del senso e della vita può servirsi con più utilità, per raggiungere i suoi scopi, di una forma chiara e semplice nella sua rigorosità costruttiva. Si può notare in questa preferenza per lo stile classico del verso un parallelo con l’atteggiamento dannunziano, che va tuttavia distinto: in D’Annunzio il recupero del passato è funzionale ad un “messaggio” ideologico, ad un “programma” poetico che intende agganciare un’idea di cultura già presente nella memoria storica con il suo bagaglio di simboli e significati. Nel nostro, il classico è uno strumento linguistico-formale, al contrario dello sperimentalismo delle avanguardie. Si è infatti talvolta paragonata la struttura ritmica degli Ossi di seppia a quella delle Myricae di Pascoli.
La semplice classicità di Montale è arricchita dall’uso della musicalità della lingua: rime, assonanze e consonanze, nonché l’uso raffinato della sintassi poetica, e altri effetti sonori.

Stile e linguaggio

Da Wikipedia

Nella lingua di Montale ritroviamo musica e pittura, e in buona misura la lingua di Dante, di D’Annunzio e di Pascoli. Il “dantismo” di Montale è generalmente considerato un fenomeno unico nel Novecento italiano per intensità e attualizzazione delle situazioni: la lingua pietrosa e aspra e il fascino della condizione umana “infernali” hanno trovato in Montale una eco di grande forza. Come per le scelte metriche della raccolta, anche le citazioni non hanno lo scopo di istituire un collegamento con un passato idealizzato – quasi una sorta di passaggio di testimone tra poeti “incoronati” -, ma quello puramente strumentale di arricchire la lingua di apporti espressivi, anche se la citazione di un classico trascina sempre con sé i risvolti profondi del suo mondo di riferimento (Meriggiare).
Invece la lezione di Pascoli, perfettamente assorbita da Montale, fu la scelta di una terminologia esatta e specifica, soprattutto per gli elementi della flora e della fauna: la scientificità di una lingua trasformata in lente di ingrandimento per tutto ciò che è piccolo e comune, così comune da non avere nome (almeno in letteratura); il senso di una natura ostile e minacciosa; un certo “impressionismo interiore” (Mengaldo) caratterizzato dall’associazione quasi sinestesica tra eventi naturali e situazioni emotive (Mediterraneo, Scendendo qualche volta). A D’Annunzio, infine, va ricondotta – come già detto – la ricerca metrico-ritmica, e il gusto per l’invenzione delle parole, che si può far risalire al rapporto privilegiato con la natura, in alcuni momenti deformata allo sguardo del poeta dalla sua stessa forza vitale – non più positiva come in Alcyone ma negativa.
Esiste un nesso tra l'”aura” fenomenologica della poetica degli Ossi di seppia e le scelte linguistiche del loro autore; seguendo la lezione critica di Pier Vincenzo Mengaldo[2], così si individua:

l’uso di parole rare non per la loro forma, ma per il loro ricorrere una volta sola in tutta la raccolta – in tal senso l’unicità oggettiva di ogni cosa è definitivamente marcata da un suo segno linguistico irripetibile;
la scelta di singole parole “letterarie” (soprattutto dantesche e dannunziane) private di un contesto riconoscibile, tale che il lettore possa subito vedere in trasparenza la loro origine, trasforma anch’esse in elementi espressionistici utili a marcare la rarità delle cose, più che delle parole;
L’uso di una terminologia precisa impedisce il crearsi di qualsiasi alone simbolico attorno alle parole: più che evocare qualcos’altro, la parola di Montale “rimbalza” sul lettore come una domanda che non ha ricevuto risposta.

Il soggettivismo linguistico di Montale (che consiste in una assoluta libertà di scelta nel repertorio lessicale – dalla lingua storica a quella scientifica) diviene così strumento per denotare le cose di una forte oggettività.

Analisi e commento di “potessi almeno costringere” di Eugenio Montale (da Ossi di seppia)

Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento;
dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare:
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura.
Non ho che queste parole
che come donne pubblicate
s’offrono a chi le richiede;
non ho che queste frasi stancate
che potranno rubarmi anche domani
gli studenti canaglie in versi veri.
Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
azzurra l’ombra nuova.
M’abbandonano a prova i miei pensieri.
Sensi non ho; né senso. Non ho limite

PARAFRASI

1-5. ritmo stento: ritmo stentato. Vaneggiamento: moto e voce senza apparente direzione e fine. Balbo: balbettante.
6-10. il poeta sognava un tempo di rubare al mare le sue parole, di giungere, cioè, a un linguaggio nuovo, in cui natura e arte coincidessero. Queste avrebbero dovuto aiutarlo a esprimere la sua malinconia di fanciullo invecchiato che non avrebbe mai dovuto pensare, ma avrebbe dovuto mantenere l’antica indifferenziazione fra sé e le cose. Nell’immagine del fanciullo invecchiato c’è ancora un’eco vagamente crepuscolare.
11-14. lettere fruste: parole logorate dall’uso. E… letteratura: la parola, “amore”, il cui pieno significato è oscuro,e che, non appena pronunciata, si banalizza, perde la sua intensità e complessità, diventa letteratura “lamentosa”, perché accompagnata, nella poesia fino a oggi, da sospiri e lamentazioni. L’uso letterario ha, cioè, privato la parola della sua significazione vera.
16. pubblicate: di malaffare; ma c’è forse un giuoco di parole; si tratta di termini ormai divulgati al punto di essere ormai vieti.
18-20. frasi stancate: per la loro usualità, che subito potranno essere saccheggiati da poeti mediocri che si esprimono in versi legittimati dalla tradizione, e dunque veri nel senso di regolari.
21-24. il rombo del mare, la sua voce inconfondibile, che è anche perenne rivelazione intuitiva, dissolve pensieri e lamenti del poeta, che, per un attimo, riesce ad identificarsi con esso, perdendo il senso doloroso del limite.

Breve commento

Situato al penultimo posto della sillage Mediterraneo, questo testo ne esprime, nella forma più compiuta, la poetica, che è poi anche quella generale degli Ossi di seppia: la ricerca – avvertita come impossibile e tuttavia perseguita con uno slancio che ha sapore di nostalgia – d’una parola autentica, di un’espressione assoluta, totale, capace di attingere l’essenza inconoscibile della vita. “Volevo – scrisse anni dopo Montale – che la mia parola fosse più aderente di quella di altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo, un’esplosione, la fine del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E’ la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica”. Si potrebbe considerare la lirica come la drammatizzazione di questa poetica. Montale vorrebbe – e non può – creare una lingua e uno stile capace di cogliere l’essenza delle cose, di quel mare che è espressione totale e profonda della vita. O meglio, dato che, a suo avviso, le cose rifiuterebbero di per sé un nome, un principio di individuazione fuori del tutto di cui non sono che manifestazione o parvenza esterna, vorrebbe cogliere il messaggio segreto nascosto dal “rombo” del mare; vorrebbe parole “salmastre”, fatte della sostanza del mare, in cui natura e arte fossero perfettamente fuse. La cosa importante, a questo punto, è che egli evita le seduzioni della letteratura, per usare un lessico vicino al quotidiano, con una ricerca di elementarità che rispecchi un’adesione alle cose, nell’attesa umile d’una rivelazione più intima. Lo stile spoglio e dissonante corrisponde all’oggetto: alla ricerca di un’armonia forse impossibile.

Eugenio Montale “Cigola la carrucola del pozzo”: parafrasi e commento. (da Ossi di Seppia)

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

PARAFRASI

2. vi…. Fonde: si fonde con la luce (come il girasole in una lirica già riportata)
4. puro cerchio: il cerchio del secchio che delimita l’acqua.
5. accosto…. Labbri: l’impulso è quello verso una totale identificazione.
7. ad… altro: non cioè, al poeta, ma ad altra persona, che è, in sostanza, un suo io passato, defunto, col è ormai impossibile comunicare.
9-10. altro:cupo, senza luce, come il gorgo del passato. Visione: è vocativo. Una distanza: non occorre definirla quantitativamente: basta evocare l’estraneità del passato.

Breve commento al testo

Un ricordo del passato giunge improvviso dalla profondità della coscienza; ma quando il poeta tenta di ritrovarlo e ritrovarsi in esso, il passato si deforma, appare alienato in uno stacco incolmabile. Anche in quest’osso si avverte la scoperta dell’impossibilità di consistere dell’individualità, travolta dal tempo e dalla vita, invano anelante a ritrovare nella memoria una propria storia, e dunque una propria unità di persona