Riassunto de “La critica della letteratura e le sue tecniche” di Franco Suitner, Roma, Carocci, 2004

INDICE

  1.  L’illustrazione documentaria dei testi letterari
  2.  Critica stilistica e formalismo
  3.  Formalismo e analisi della narrazione
  4.  Temi e comparazione letteraria
  5.  La letteratura e il suo ambiente di sviluppo
  6.  Tra storia e ideologia
  7.  Autore, interprete, pubblico
  8.  Il contributo dell’analisi della psiche
  9.  La filologia
  10. Il problema del giudizio
  11. Luoghi e modi della critica

 

 

 

 

Si tratta di un manuale dove vengono trattate ad ampio raggio numerose tematiche rotanti intorno alla letteratura e alle tecniche ad essa annesse. Laddove si vuole portare la letteratura a rango di vera e propria scienza, l’autore ci elenca i motivi, le critiche e i limiti di tale concezione.

I temi trattati sono vari: si passa dall’illustrazione dei testi letterari dove viene spiegato come debba essere fatta una lettura, cercando di coglierne i particolari più importanti di un’opera, passando tra l’altro per lo studio delle fonti, metodo di ricerca importantissimo in ogni epoca letteraria, per poi analizzare cosa s’intende per critica stilistica, che tipo di analisi possono essere fatte, quali sono state, e quali sono le principali correnti critico-letterarie che si sono occupate delle analisi dei testi. Suitner, scandaglia soprattutto i formalisti russi, facendo emergere i risultati a cui sono arrivati. Non manca un capitolo sul marxsismo e la critica ideologica, ed il confronto tra le varie culture dominanti, affinché il lettore possa avere una visione più lucida o meglio ancora un quadro completo su ciò che sta studiando o leggendo per passione.

Tutta la seconda parte del libro, ha come oggetto specifico la filologia, indagata a trecentosessanta gradi; o meglio la seconda parte del libro è fatta in modo tale che il profano possa poi indirizzarsi se lo ritiene necessario a studi più approfonditi, quindi pone le basi per un approccio quantomeno proficuo. Viene infatti indagato nel libro prima il rapporto tra storia e filologia, nonché poi il rapporto tra filologia e informatica: raccolta dati, analisi testuali, ecc…

  1. 1.   L’illustrazione dei testi

 

Molto importante in letteratura è l’interpretazione dei testi, di tutti i testi che hanno segnato una civiltà letteraria. L’esigenza ha le sue origini nella comprensione del testo. Si tratta, comunque, di un lavoro certosino e molto delicato in quanto richiedono sia precisione che intelligibilità. Già il fatto di dover studiare la lingua del passato, o meglio la lingua dei testi del passato e adattarla alla lingua odierna, risulta cosa assai difficile, già solo per lo scarto semantico che ne risulta.

Si prenda ad esempio una poesia del duecento, l’interprete si troverà di fronte ad una miriade di difficoltà, difficoltà che in primis vanno dichiarate dall’interprete.

Se il commento tende il lettore ad allontanarlo dal testo in quanto forte è l’interpretazione dello studioso, il discorso critico ancor di più tende a sostituire la lettura dell’opera.

Alla luce di ciò, come deve procedere un lettore quando si trova davanti ad un testo ostico?

1)    Lettura lenta con l’aiuto delle note

2)    Leggere più volte un testo

3)    Aiutarsi con il vocabolario e quindi tenerlo sempre a portata di mano

Per quanto riguarda i commenti a pié di pagina folti di richiami linguistici, a cosa servono? Questi effettivamente risultano essere molto utili, ad esempio per esercitarsi nella grammatica, nell’esame stilistico, in quello storico, ma sono dannosi o possono essere dannosi in quanto per il lettore meno esperto portano ad un non corretto apprezzamento di queste opere. Questi consigli valgono sia per la poesia che per la prosa.

Ancora sul commento,è necessario che esso sia equilibrato e  che rispetti i vari livelli del testo: l’illustrazione formale, quella storico erudita, e quella propriamente estetica.

Un testo può essere commentato ricorrendo a delle immagini o mettendolo a confronto con altre manifestazioni artistiche del suo tempo: musica, teatro, cinema. L’immagine, l’icona, è un ausilio molto convincente e persuasivo per il lettore che apprezza. Il suo utilizzo risulta essere potente strumento per apprendere nozioni, e aiuta sicuramente la memoria di chi deve leggere.

Ecco una parte dell’attività del critico, consiste proprio in quelle operazioni che abbiamo fin’ora descritto: il commento; il discorso critico; abbiamo visto che bisogna usare buon senso in queste operazioni per non influenzare troppo il lettore.

Ammettiamo che vogliamo saperne di più su un testo e sull’autore del testo. Cosa occorre? Si tratta delle cosiddette indagini biografiche ed erudite. Si tratta di quell’attività svolta dai critici che consiste nella raccolta e nell’elaborazione delle informazioni e dei documenti, si cerca di chiarire il contesto storico in cui l’opera è nata, in quali circostanze l’autore si trovava, e in che modo egli operava.

Sono stati i ‘positivisti’ a lavorare in questo modo alla metà dell’ottocento, in quanto ritenevano che la pubblicazione dei documenti riguardanti l’opera e l’autore, la precisazione erudita del significato dei singoli passi annessi i riferimenti storici, la raccolta minuta delle informazioni concernenti i tempi in cui un’opera è stata composta e in cui si è diffusa, potessero dare un fondamento scientifico all’opera stessa, dei dati oggettivi su cui lavorare e trarre del conclusioni, dei dati in cui l’interpretazione si riduceva al minimo.

Critiche al metodo positivista?

–         La critica non poteva limitarsi soltanto a questo tipo di lavoro, certo certosino, ma incompleto per la totale comprensione del testo;

–         I dati aquisiti – faceva rilevare Suitner – rimangono dati esterni all’opera e non riguardano se non indirettamente la forza o la debolezza espressiva dei testi;

–         Talvolta questi dati possono essere fuorvianti, in quanto si allontanano dalle dinamiche dell’opera stessa.

 

Sulle informazioni biografiche anch’esse risultano essere molto importanti, ma riguardano comunque un interesse extra letterario, o meglio ancora non sono utilissime ai fini della comprensione di un testo. Certo aiutano a capire la personalità e la psicologia dell’autore, le sue paure i suoi sentimenti, ma in che rapporto possono essere messe con l’opera che egli ha scritto? Quanto sono utili alla fine della comprensione di un testo? E’ proprio questa la critica che è stata mossa al metodo ‘positivista’.

Negli Stati uniti d’America o in Inghilterra lo studio di questi particolari è ad uno stato avanzato rispetto ai paesi latini; in Italia abbiamo invece più biografie ‘romanzate’.

Altro elemento ricorrente da parte della critica è la ricerca del dato nuovo. In questo senso, talvolta, i giovani ricercatori presi dall’ansia di produrre un risultato o una ricerca che riporti una novità di cui non si è mai parlato, si affannano nella ricostruzione degli eventi storpiandola o formulando ipotesi che non sono veritiere su un determinato testo. E’ questo un errore che non deve essere commesso, in quanto è sbagliato il concetto di partenza del critico, come esso si pone di fronte ad una ricerca, da quali intenti è animato. In questo senso Suitner è abbastanza chiaro: “ quel che dovrebbe veramente appassionare è la prospettiva di andare il più a fondo possibile nello studio e nella conoscenza, secondo uno stato d’animo che all’inizio sarà quasi di natura dilettantesca, nel senso migliore di questa espressione. E’ molto pericoloso invece che fin dall’inizio sia esclusiva l’ansia di precisare un dato, un elemento della ricostruzione, per conquistarsi una citazione nei lavori futuri, o peggio un titolo per la successiva carriera.” (pp. 19)

Altro elemento interessante quando si affronta lo studio di un testo è l’indagine sulle fonti delle opere. Si tratta di ricerche ovviamente di tipo settoriale, molto settoriale, ma che hanno la loro utilità e che ha conosciuto il momento di massimo lavoro con i positivisti.

Per queste ricerche si parte da questo presupposto: l’autore di un’opera quando scrive, o all’inizio della sua attività non può prescindere del tutto dall’esempio di chi è venuto prima di lui, non può non avere dei modelli, magari anche per allontanarsene o per differenziarsene.

Che tipo di fonti si prendono in considerazione?

a)     un autore può prendere delle notizie da testi precisi e siamo allora nell’ambito di fonti di tipo culturale;

b)    può riprendere un’espressione, un pensiero preciso da un altro autore;

c)     può essere influenzato in tutto il suo stile dal lavoro di altri, da scrittori del passato o da quelli immediatamente a lui precedenti

d)    un romanzo può essere modellato, nella struttura, nel tipo d’intreccio, nella costruzione dei personaggi, su altri romanzi precedenti, oppure è lo stile che può ricordare l’andamento, i tipi di frase, di aggettivazione.

Talvolta i sedimenti letterari che rimangono in autore che lo accompagnano per tutta la vita, al di sotto del livello della coscienza, danno vita a delle vere e proprie ricerche psicoanalitiche.

 

  1. 2.   CRITICA STILISTICA E FORMALISMO

Assume molta importanza una certa attività del critico o del ricercatore, ovvero l’analisi formale delle opere. Sebbene il concetto di forma sia ampio e dia vita a vari dibattiti nonché a vere e proprie scuole di pensiero, spesso si fa coincidere l’analisi formale di un’opera con l’analisi di tipo linguistico.

In questo senso si opera cercando di capire il lessico di un’opera, la sintassi, come le frasi sono legate fra di loro, la predilezione per alcune strutture grammaticali, si può finanche notare la frequenza di certi costrutti e figure retoriche. Trattasi questa, della critica stilistica.

Uno degli indirizzi più importanti della stilistica del novecento, è quello ginevrino legato al nome di Charles Bally. Questo filone di studi mira ad occuparsi della lingua di tutti, e addirittura si spinge oltre: la forma con cui esprimiamo il nostro messaggio diviene oggetto di studi per capire la propria individualità, i propri sentimenti, i propri slanci affettivi. Alla luce di ciò va esplicitato che la critica stilistica parte da un presupposto fondamentale: vi è sempre una comparazione tra il messaggio che si vuole enunciare, e il suo codice ovvero l’insieme delle convenzioni linguistiche e stilistiche cui quel messaggio fa riferimento.

In questo senso si arriva a capire meglio le teorie ballyane. Lo studioso cercava di spiegare i meccanismi che erano alla base della forma della lingua, quindi una descrizione della lingua che tenesse conto anche e soprattutto delle varietà espressive legate agli stati d’animo, alle circostanze e alla personalità dei singoli parlanti o scriventi.

Certo è che quando si parla di critica stilistica non si può non nominare la grande famiglia stilistica di Karl Vossler e di Leo Spitzer. Se prima abbiamo parlato della scuola ginevrina, con Vossler e Spitzer si parlerà di scuola tedesca.

E’ molto importante questo assunto di Spitzer, rimasto peraltro famoso:

“a qualsiasi allontanamento dallo stato psichico normale, corrisponde nel campo espressivo, un allontanamento dell’uso linguistico normale”

In effetti sia Spitzer che Bally partono dalle stesse premesse: vi è un linguaggio usuale, comune, e poi vi è l’uso del linguaggio che fa il singolo, nel nostro caso l’autore di un’opera.

L’uso che il singolo fa del linguaggio presenta delle caratteristiche che il critico può descrivere.

Il critico per descrivere queste caratteristiche come opera secondo le teorie spitzeriane?Lavora essenzialmente sulla lettura ripetuta dei testi;

Secondo Spitzer il lettore ad un certo punto della lettura sarà colpito da alcuni particolari significativi dello stile dello scrittore: saranno quegli stilemi fondamentali che si troveranno disseminati in tutta l’opera.

E qui che interviene il critico. Leo Spitzer parla del cosidetto “clic” atto a identificare il riconoscimento di una o più particolarità stilistiche illuminanti, che possono spiegare la forza di una prosa o di uno stile poetico.

Questo stilema viene isolato dal critico, e va rivela delle nozioni interessanti sull’autore atte e rivelare la sua personalità.

La validità di uno stilema va poi riconfermato in tutta l’opera. Ad esempio un certo uso grammaticale o sintattico può rivelare una personalità caratteristica, il rapporto con il nucleo tematico ispiratore dello scrittore.

E’ essenziale quando si parla di critica spitzeriana parlare di richiami di psicologia. Molti studiosi si sono spinti oltre la critica, parlando di vere e proprie analisi psicologiche degli autori dei testi. Tuttavia, con Spitzer sia proprio nell’ambito del circolo di Vienna, sicché lo stesso si fa portatore ed erede della scuola neogrammatica di Meyer Lubke, ed è testimone della nascita della psicoanalisi freudiana.

In effetti tutta l’attività di Freud si rivela essere importante per la critica stilistica, in quanto motivo proprio della psiconalisi vi è il tentativo di svelare l’inconscio attraverso l’analisi di un testo. Alcuni disturbi fisico-mentali venivano scaricati nell’attività del parlante che di tali disturbi soffriva: ad esempio elementi dell’affettività si scaricavano sulla forma linguistica che assume a seconda dei casi degli aspetti devianti, patologici o particolari, a loro modo caratteristici.

Per riassumere: nei metodi di Spitzer e della sua stilistica importante è quel momento in cui viene individuato quel determinato tratto stilistico, la quale viene caricato di contenuti extra letterari in cui si estrinseca tutto il mondo espressivo dell’autore, non solo quello letterario.

Il critico stilistico si troverà di fronte a due strade:

1)    può scegliere di offrire una descrizione di stilemi caratteristici del suo autore, riducendo al minimo la parte di interpretazione unificante che porta a una caratterizzazione generale: la sua stilistica in questo caso sarà sostanzialmente un’analisi linguistica

2)    può offrire una descrizione classicamente tematica o psicologica dello scrittore, appoggiandola a rilievi stilisticim e questa volta il suo studio penderà verso il versante contenutistico.

 

 

 

 

  1. 3.   IL FORMALISMO RUSSO: l’analisi tecnico-formale e i suoi limiti

Proseguendo il discorso sulla critica stilistica, senza ombra di dubbio un posto a sé meritano i formalisti russi, il cui massimo esponente fu Victor Sklovskij.  Secondo lo studioso l’arte totale è soggetta  straniamento ovvero vi è l’idea che l’autore di un’opera riceva dalla tradizione certe convenzioni e le sottoponga a modifica geniale attraverso il cosidetto ‘straniamento’. Straniamento non riguarda solo la forma linguistica, ma anche quella dei contenuti, i meccanismi rappresentativi di un’opera e le sensazioni trasmesso. E’ straniamento tutto ciò che porta al di là della natura intrinseca della forma sia essa linguistica o contenutistica. In questo senso l’opera vessillo che spiega le teorie di Sklowskij è “Teoria della prosa” del 1925.

I formalisti russi operano all’inizio del novecento, e comprendono in realtà molte tendenze. Contribuirono a loro modo alla formulazione di una teoria della letteratura che influenzerà le riflessioni successive. Furono accaniti studiosi di tecniche letterararie. Indagarono finanche il suono, il metro, e le strutture narrative.

L’effetto più positivo del formalismo, se si vuol tentare di fare un discorso di portata generale è stato quello di far maturare il perfezionamento delle tecniche di descrizione della forma dei testi, proponendo quindi delle analisi che al lettore accorto possono essere di utilità.

L’effetto negativo invece potrebbe essere – spiega Suitner – quello di aver contribuito alla nascita  di terminologie tecniciste sempre più complicate e magari fine a se stesse, che hanno finito per staccare la letteratura dal suo naturale pubblico. Ecco come se i formalisti russi avessero la presunzione di dichiarare che i grandi capolavori della letteratura potessero essere studiati e capiti solo dagli ‘scienziati’.

Ad esempio – continua Suitner – un volume intero che elenchi tutti i modi in cui Balzac inizia un periodo serve a poco, se da queste osservazioni non si ricavano considerazioni generali valide non soltanto in chiave formalistica, ma anche utili a promuovere nuove interpretazioni sull’autore.

Od ancora se l’analisi minuziosa dei singoli fatti che compongono un’opera, diviene necessaria e giudiziosa, in realtà i fatti dimostrano che questa non ha molto senso.

Abbiamo detto che i formalisti russi analizzarono anche le strutture della narrazione, quella che in qualsiasi antologia verrebbe denominata “analisi del racconto”.  Se si parte dalla considerazione che ogni componimento narrativo ha delle strutture portanti sia per ciò che concerne gli elementi strutturali (prologo, azione complicante, epilogo) sia per quanto riguarda gli elementi di contenuto, si arriva alla conclusione che l’analisi del racconto risulta essere molto utile per l’individuazione dei generi del racconto. Fu questo un filone di studi che ebbe molto successo negli Stati Uniti d’America. Gli studiosi americani svolsero e svolgono tutt’ora indagini sulla ‘narrativa naturale’ cercando di individuare gli elementi più comuni alla più semplice attività di creazione narrativa, in ambienti popolari ben caratterizzati. La conclusione a cui si arrivarono gli americani è che vi sono parecchie similarità nell’uso degli artifici narrativi che sono alla base di qualunque narrazione. Questo spiega ad esempio la ripetizione delle tecniche narrative nel corso del tempo. E’ come se, una volta scoperto che il lettere da un certo meccanismo trae godimento nella lettura, tale meccanismo lo si ripete al fine di prolungare e moltiplicare il piacere. Alla luce di tale ragionamento si spiega la nascita delle fiabe, delle narrazioni antiche epiche e medievali, i più recenti romanzi d’avventura e polizieschi.

Proprio sulle fiabe, lo studioso di folklore Vladmir Propp nel 1928 pubblicò “Morfologia sulle fiabe”. E’ un opera miliare per quanto riguarda il tentativo di dare un fondamento all’analisi del racconto e renderne esplicite le relative teorie.

Propp andava ad individuare, o meglio ancora si concentrava sull’azione dei personaggi delle fiabe, dando luogo ad un’analisi funzionale. Per capirci meglio: per Propp non era importante capire chi è la protagonista di una favola, ma è importante capire cosa fa, quale azione compie e quale azione compie, quale funzione vi svolge. La favola – dice Propp – la storia, nasce da una successione di azioni, di funzioni, azioni e funzioni che hanno un numero limitato. Scegliendo un determinato corpus di fiabe di magia russa, Propp identifica 31 funzioni significative per lo sviluppo della storia. Ad esempio si poteva avere la funzione “punizione” oppure la funzione “ritorno”, “salvataggio”, “divieto”, “fuga”, “lotta”, “nozze”.

Propp giunge alla conclusione che, almeno per quanto riguarda le fabie di magia da egli considerate, esse sono sostanzialmente tutte varianti di un tipo unico, offrendo una tabella che si propone di descrivere sinteticamente nel modo accennato tutto il corpus di fiabe che ha scelto, rendendo agevoli, attraverso il confronto strutturale paragoni e conclusioni generali sul modo in cui le storie sono costruite.

Ciò che bisogna chiedersi è: le funzioni esplicitare da Propp corrispondono agli elementi minimi della narrazione? Secondo Suitner Propp avrebbe potuto scegliere anche altre funzioni dal momento che, l’analisi dell’intreccio, di una trama, ciò che appare significativo a un osservatore, può non apparire tale, ad un altro. E inoltre: lo schema di una fiaba ottenuta con questo metodo che tipo di descrizione ci offre della stessa? Sempre – secondo Suitner- “ si ha la sensazione che si tratti di una descrizione molto povera, in primo luogo per la scelta di concentrarsi soltanto sull’azione del racconto” (pp. 46).

Ciò che appare evidente è che nell’analisi della favola proppiana si trascurano gli ambienti, i paesaggi, i caratteri dei personaggi, elementi che appaiono significativi ai fini dello stesso intreccio, dati che sono importanti alla fine della costruzione della struttura narrativa.

Sempre per ciò che concerne l’analisi del racconto: l’analisi proppiana può essere usata per analizzare altri generi letterari più sofisticati e complessi? In linea di massima, l’analisi dell’intreccio appare tanto più rilevante quanto maggiormente le trame narrative sono stereotipate. Sicché un’analisi del racconto può essere effettuata per il romanzo popolare rosa, per il poliziesco, per alcuna narrativa d’avventura.

Ritornando ai formalisti russi, alcuni meriti possono essere tracciati: l’analisi del racconto ha avuto il grande merito di richiamare l’attenzione di chi studia sui meccanismi della narrazione, e di portarne alla luce gli aspetti convenzionali e quelli più innovativi. Sklovskij ad esempio osservava la maniera in cui gli scrittori legano vari episodi all’interno dell’opera, o quella in cui attuano la divisione in capitoli dei loro libri. Questo tipo di studi sono in qualche modo paragonabili a quelli che in poesia vengono dedicati alle strutture metriche.

Per concludere: lo studio delle strutture narrative può cogliere uno degli aspetti più importanti delle opere. E’ produttivo, come del resto le altre forme di studio, soprattutto se viene integrato a un’osservazione generale dei testi. La possibilità di poterlo perseguire con precisione matematica è probabilmente una velleità, anche se afferma Suitner il “tentativo di rendere lo studio meno generico e di precisare paragoni e confronti fra le diverse strutture narrative nasce comunque un incremento delle conoscenze, che può essere utilizzato anche sul piano storico”.

 

 

 

 

 

  1. 4.   Temi e comparazione letteraria

Abbiamo parlato della critica stilistica, ma la letteratura diviene oggetto d’indagine anche per ciò che concerne i temi trattati da tutte le opere che formano l’immenso patrimonio letterario che può vantare una nazione.

Anche questi sono tipi di studio settoriali, sono ricerche finalizzate alla comprensione dei contenuti che hanno le opere letterarie, nonché sono analisi atte a verificare se alcune tematiche si ripetono nel corso del tempo. Ed in effetti è proprio così: alcuni temi tendono a ripetersi in diverse opere, in diversi autori o anche in diverse letterature del mondo.

Furono gli studiosi del folklore, per primi, a mettere in evidenza questo tipo di studi, infatti nella letteratura popolare si riscontrano degli elementi costanti e caratteristici che si ritrovano nel corso del tempo.

I positivisti tedeschi attraverso la “Stoffgeschichte” (storia dei temi) cercarono di individuare proprio queste costanti. Elisabeth Frenzel  ha tentato di comporre un inventario o meglio ancora una classificazione di molti letterari, giungendo a conclusioni che seppur opinabili mettevano in luce risvolti interessanti: effettivamente alcuni temi letterari si ripetono nel corso del tempo, e sembrano attrarre il lettore più di altri temi.

Si prenda ad esempio la mitologia. Molti scrittori attingono dal repertorio mitologico, in quanto la mitologia con i suoi personaggi, con i suoi densi nuclei narrativi hanno e avevano un potere fascinatorio sul lettore.

Un altro esempio di ricerca tematica è quella di andare ad individuare i topoi. Si tratta dei cosidetti luoghi comuni. In questo senso, il medioevo, può essere considerato nella cultura occidentale l’epoca d’oro del topos. Per fare degli esempi, la donna cortese che sparge attorno a sé amore e benessere spirituale, è un vero e proprio topos. Si pensi che la poesia italiana del duecento è permeata da questo tipo di topos. Nella lirica siciliana, nei poeti siculo toscani, nei poeti giocosi la donna cortesi in un modo o nell’altro è sempre oggetto di attenzione ed è al centro dei componimenti.

Anche la letteratura moderna è ricca di topos: il castello tenebroso e quasi inaccessibile, sede del malvagio o del brigante ribelle, è una presenza tipica o topica di certa letteratura romantica; il viaggio per mare che sconvolge tutta la vita del protagonista, aprendola a vicissitudini e sviluppi impensati, ad esempio è molto ricorrente nella letteratura inglese dell’ottocento.

Nel novecento non si possono trascurare alcuni topoi ricorrenti soprattutto nella letteratura italiana: l’autostrada nel “Guidatore notturno” di Italo Calvino rappresenta una realtà geometrica unita alle vicende sentimentali del protagonista. In “Autobahn” (1980) di Vittorio Tondelli, l’autostrada è una strada speciale che va verso l’altrove. Più che in Italia il topoi dell’autostrada è presente negli Stati uniti d’America: l’autostrada diviene il luogo degli incontri casuali; si incontrano le persone più svariate rappresentanti tutti i ceti, le condizioni, le fedi, le nazionalità e l’età.

Presente nella letteratura italiana anche il topos della banca, che ha avuto quasi sempre una connotazione negativa, emblematica per concepire la crisi del uomo novecentesco. L’Alfonso Nitti di “Una vita”(1892) di Italo Svevo ne può essere un esempio.

Al di là di questa breve rassegna di esempi, lo studio di un testo può anche allargarsi alla costruzione di un capitolo della storia della cultura. Nell’opera di Ernst Robert Curtius “la letteratura europea e il medioevo latino” (1948) lo studioso mette in evidenza  alcuni topoi della cultura occidentale, soprattutto nel passaggio fra mondo classico e medioevo latino e volgare.

Particolare importanza hanno anche le ricerche iconologiche, ovvero quelle immagini che ricorrono nel corso del tempo nell’arte. L’istituto di Walburg di London in questo senso, cerca di mettere in luce i risultati di questo tipo di ricerche, ma si tratta comunque di studi affini alla letteratura: è compito specifico dell’antropologia, della sociologia, degli studiosi del folklore cercare di mettere in evidenza questo tipo di ricerche. Antropologia e folklore hanno esercitato un grandissimo influsso sugli studi letterari e moderni. La ricerca sul folklore ad esempio, può aiutare a comprendere gli infiniti legami fra la cultura popolare e quella alta degli scrittori e degli intellettuali.

Lo studioso Michail Batchin negli anni venti del novecento, in un famoso libro su Rebelais ha ricostruito o meglio ha fatto emergere tutta una serie di elementi, valori, emblemi della cultura popolare medievale europea, in particolare quella legata alla festa del carnevale. Nella concezione dello studioso russo il romanzo è il crogiulo ideale in cui convergono tutti gli altri generi letterari. Il romanzo è il genere polifonico per eccellenza, un genere aperto, mai codificabile, che si modifica incessantemente adattandosi alle contingenze e inglobando in se stesso le più svariate forme di espressività letteraria.

Comunque, dei testi letterari non si occupa quindi soltanto il critico, ma anche lo storico, l’antropologo, il folklorista. Ma la necessità di far convergere discipline diverse per rendere più ricca e possibile l’interpretazione dei testi può favorire il dilettantismo. L’aspirante interprete di tutti i sistemi di segni, può rivelarsi esperto di tutto e quindi di nulla.

 

 

 

  1. 5.   La letteratura e il suo ambiente di sviluppo

Altro aspetto interessante quando si disquisisce di letteratura, è qual è l’influsso che l’ambiente geografico e culturale, il contesto storico e sociale hanno sulle attività creative degli autori e sulle caratteristiche delle opere letterarie?

Domanda da un milione di dollari, difficilmente si riesce a dare una risposta precisa; più che altro proprio per la difficoltà si tende ad evadere la domanda, cercando di andare a rappresentare chi ha approntato questi tipi di studi, e cercando di capire a che tipo di sviluppi è giunto. Ad esempio, i positivisti, batterono molto questa pista, e prima di loro i romantici: cercare di capire cosa legasse la storicità e l’arte, l’uomo, la storia e l’opera d’arte. Alla luce di ciò, le prime vere e proprie storie delle letterature nazionali, in Europa, sono nate su questi presupposti nell’ottocento: il giudizio sulle opere andava rapportato al divenire storico e a una più generale valutazione dei fattori di civiltà del tempo.

Cosa voleva dire, letteratura nazionale? Parlare di letteratura nazionale voleva dire avere una visione diversa delle cose, o meglio ancora, l’idea di letteratura nazionale, andava in perfetta simbiosi con la diffusione del culto della nazione e con l’aspirazione sempre più forte all’unità e all’indipendenza di molti popoli europei.

Ad esempio, proprio Suitner, faceva rilevare che osservando la storia della cultura degli ultimi secoli si notava che nei periodi di più elevato fervore politico, vi era l’inclinazione a utilizzare per scopi pratici di parte l’attività artistica.

L’idea che a ogni nazione corrisponda una letteratura, con specifici caratteri e un ben determinato “spirito”, è una tipica idea romantica che ha continuato a essere sostenuta ed elaborata proprio in periodo positivista. In base a questa teoria esisterebbe uno spirito caratteristico della letteratura italiana, di quella tedesca, e di quella spagnola; e c’è di più: i motivi caratterizzanti sarebbero legati a fattori di razza, e quindi si potrebbe parlare di caratteri latini, celti, slavi.

Dopo il periodo positivista si sono avute molte interpretazioni sulla storia nazionale, o ricostruzioni della personalità degli autori, alla luce dell’influsso esercitato da fattori quali la nazionalità, l’ambiente, la razza. Il più noto, e certamente il più dotato fra gli studiosi europei che hanno seguito queste tendenze, è stato il francese Hippolyte Adolphe Taine, autore in particolare di una “Storia della letteratura inglese” (1863) nella quale larghissimo spazio è fatto alla riflessione sui fondamenti antropologici della cultura inglese, dall’autore assai ammirata.

Comunque sia, lo storicismo positivista e quello post-positivista hanno valorizzato proprio lo studio dei rapporti fra le opere d’arte e la realtà storico-ambientale.

Ma in generale si può dire che:

–         non sembra che vi sia un nesso imprescindibile fra la nascita di una grande opera letteraria e lo stato di civiltà del paese in cui nasce

–         l’esistenza di condizioni propizie al lavoro intellettuale come libertà, tolleranza, benessere materiale e opportunità di espressione incidono sulle condizioni generali dello sviluppo culturale, favorendo la nascita e la pubblicazione di buone opere letterarie.

 

Suitner riportava l’esempio di come in un’epoca di grandissimo splendore della vita civile come il rinascimento italiano non ha prodotto molti capolavori, mentre la russia ottocentesca del periodo zarista ha tirato fuori romanzieri come Bulgakov, Pasternak, Solzenicyn.

Lo storico della letteratura italiana Carlo Dionisotti aveva parlato non solo di storia della letteratura, ma anche di geografia della letteratura soprattutto quando una nazione ha una vicenda politicamente e linguisticamente non unitaria, com’è il caso dell’Italia: in questo senso le letterature regionali, anche linguisticamente differenziate sembrano offrire uno scorcio molto interessante sulle teorie di Dionisotti: all’interno delle diverse nazioni lavorano anche scrittori di lingue diverse, così come parallelamente autori appartenenti a una cultura scrivono in paesi lontani, secondo una serie di combinazioni che i processi di globalizzazione, i viaggi, le migrazioni e i mescolamenti di popolazione rendo sempre più varie e per tanti aspetti ricche.

Alla fine del novecento si è andato via via teorizzando il problema relativo al canone letterario ovvero secondo Suitner: “ l’insieme dei testi, la “lista” potremmo dire, che entra a far parte delle letture riconosciute di una comunità, di una nazione, di una civiltà. Si tratta dei testi ai quali finisce con l’essere riconosciuta la dimensione del “classico”, maggiore o minore, dei testi che vengono studiati a scuola e la cui conoscenza è promossa come fattore fondamentale dell’educazione dell’individuo”. (p.73)

Dove e come nasce il problema del “canone letterario”? Gli studiosi si sono chiesti come mai nel canone dei classici non figurassero per nulla opere di autori appartenenti di altre culture, come ad esempio le opere dei paesi del terzo mondo, dei paesi emarginati per intenderci. Come se una classe dirigente di una determinata nazione costruisse un modello educativo che si avvale di una lista di letture attraverso le quali contribuire a perpetuare le proprie tradizioni e i propri modelli di vita.

In questo senso, le opere di tipo popolare hanno spesso faticato a vedersi riconoscere il posto che meritavamo all’interno dei “canoni” nazionali.

Ritornando poi al legame di storia e letteratura da una parte bisogna rendersi conto che mescolare troppo la storia con la letteratura significa in qualche modo allontanarsi dall’oggetto letterario, dall’altra parte bisogna anche dire che una lunghissima esperienza insegna che la storia è uno dei migliori compagni di strada per lo studio della letteratura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 6.   Tra storia e ideologia

Altro aspetto da non escludere, anzi, tutt’altro è il rapporto che può legare la letteratura con l’economia, o meglio ancora la dimensione economico-sociale con la letteratura. Sicché non ci può esimere dal parlare del marxismo e della sua critica ideologica.

I marxsisti partono dal presupposto che l’arte sia una sorte di rispecchiamento sovrastrutturale della struttura economica e sociale del mondo.

Fin dai suoi inizi, i migliori pensatori non hanno avuto vita facile nel dimostrare le loro teorie; veniva loro imputato di indagare la realtà in modo molto rozzo e semplicistico, e l’etichetta che gli venne attribuita fu quella di indagare la letteratura attraverso un “sociologismo volgare”.

Tuttavia un altro fatto è altrettanto vero: quando il rinnovamento o lo sconvolgimento della struttura economico sociale ha il sopravvento, , è difficile che la “sovrastruttura” artistico-letteraria per essere considerata solo o prevalentemente in rapporto alla sua utilità strumentale.

Cosi è accaduto che negli trenta, sessanta e settanta del novecento, nacquero una schiera di minor interpreti, tra cui anche insegnanti e studenti che sentivano la necessità di sostituire i “classici” reazionari della letteratura, con la lettura del giornale quotidiano, che indubbiamente ‘rispecchia’ la struttura economico-sociale senza tante complicazioni.

Autori come Balzac, Tolstoj, venivano giudicati dei progressisti, in quanto la loro opera, sorretta dal talento artistico, andava a riflettere prepotentemente il quadro della società dell’ottocento, la sua realtà economica, le sue contraddizioni di classe.

In Italia ad esempio, ampie discussioni si sono fatte su quanto Manzoni e Leopardi fossero reazionari. Quanto sono utili questo tipo di discussioni? Taglia corto proprio Suitner che afferma che se queste argomentazioni vengono coltivate come obbiettivo primario rischiano di allontanare anziché di avvicinare il lettore da quel che è più importanti nell’opera di questi autori.

Se da una parte l’ideologia è massicciamente presente in molti scrittori, come ad esempio leggendo i cattolicissimi Manzoni o Chateubriand, questo discorso non può solamente valere da una parte per gli scrittori marxisti, e dall’altra dalla critica marxisista molte volte accusato di rilasciare patenti di progressismo.

Il fatto è che non si può negare a nessuno la possibilità di accostarsi alla letteratura strumentalmente, cercandovi il riflesso di qualcosa che lo interessa molto di più (politica, economia e scontro sociale), ma la comprensione della letteratura può seriamente esserne compromessa, e comunque si richiederebbe al critico e al lettore di avere una mano molto delicata.

Uno dei più grandi critici marxisisti, il pensatore ungherese Lukas, ha improntato ricostruzioni storico-letterarie che sono fra le più significative del Novecento.

Proprio Lukas ha esplicitato la teoria del “realismo”. In cosa consiste? Parte dal presupposto che la grande arte è essenzialmente realistica e che realistica è la grande arte che ha avuto la maggioranza dei grandi scrittori. Non si tratta, di verismo, o di naturalismo, Lukacs si spinge oltre parlando di tipizzazioni che insieme vengo a offrire un ritratto profondo e poetico di un periodo storico, come è evidente che il grande realismo di cui parla lo studioso riprende l’uomo completo e la società intera, anziché alcuni aspetti della loro condizione, quindi pensa anche alla ricostruzione dei rapporti economico-sociali.

Suitner su la critica marxista conclude così: “è importante sottolineare che gli aspetti più interessanti della riflessione dei teorici marxsisti sulla letteratura possono avere una validità in una buona parte indipendente da quella che si voglia riconoscere ai programmi politici cui erano all’origine legati, frutto di particolari momenti della storia internazionale e soprattutto europea. Ciò del resto vale anche per altri pensieri estetici e programmi letterari e artistici, vicini a ideologie del tutto diverse”. (pp.84)

Contemporaneamente alle teorie lukacsiane nei paesi socialisti si diffonde, si impronta un’arte di propaganda. La richiesta alla letteratura di essere eticamente e socialmente impegnata può sfociare facilmente in un’arte propagandistica. Si pensi a regimi dittatoriali come il fascismo e il nazismo, dove l’arte si mette a disposizione del regima affinché propagandi i valori del regime stesso.

Finanche in Gramsci si può scorgere una possibile strumentalizzazione della lettura critica e della istituzionalizzazione di discutibili scale di valori letterari.

Il lavoro gramsciano è un lavoro molto interessante: lo studioso riuscì ad analizzare i meccanismi attraverso i quali il potere riesce a manipolare le masse, ma il suo discorso sul ruolo dell’intellettuale socialmente impegnato è organico ad un partito (quello comunista, da lui fondato nel 1921) cosi come nell’Europa del dopoguerra questo tipo di modello di intellettuale impegnato, molto specifico ad un movimento politico, ha avuto per lungo tempo un successo enorme.

Ritornando quindi al marxsismo, la “contestazione al realismo” si è sviluppata ben presto anche nello stesso ambito della critica influenzata dal marxsismo stesso: pensatori come Walter Benjamin e il gruppo di filosofi della scuola di Francoforte hanno sviluppato un’idea della funzione della letteratura, che, se parte da premesse analoghe a quelle marxsiste, giunge a esiti opposti sul piano del gusto. Anche qui a fondamento vi è l’idea che la letteratura debba influire sui mutamenti storico-sociali, in particolare che debba avere una posizione contestatrice nei confronti soprattutto dell’organizzazione della società, ricordando sempre che la musica, la letteratura e l’arte in genere paiono nascere essenzialmente dalla sofferenza dell’uomo, dalla sua condizione di disagio sociale e individuale, e dallo stimolo alla ribellione. Questa dovrà esprimersi di necessità in forme sempre nuove, forme che quindi non possono in alcun modo assimilarsi a quelle di un’arte di propaganda politica organizzata per via burocratica.

La poesia lirica diviene più della prosa strumento immediato per la contestazione del reale, la prosa è più complessa, ci sono da valutare i messaggi comunicativi, le caratteristiche linguistiche, la poesia sembra essere –secondo Walter Benjamin- più immediata.

Tra i tanti filoni di studi critici, forse minore rispetto ad altri vi sono stati tentativi in cui si cercava di leggere nelle opere letterarie i messaggi che si riferiscono ad altre forme di civiltà. Gli americani cercarono di capire i modi attraverso i quali una determinata civiltà, legge e interpreta un’altra cultura, spesso fraintendendola o deformandone i caratteri in modo più o meno interessato o anche qualche volta non intenzionale.

Comunque sia, per concludere, la qualità di queste ricerche dipende molto dal senso della misura con cui sono condotte, nonché dall’accuratezza della documentazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 7.   Autore, interprete, pubblico.

La critica sociologica ha molte volte preso in considerazione gli studi su un autore, sugli interpreti e sul pubblico. Alla luce di ciò va detto che lo scrittore:

–         può essere studiato nel suo radicamento sociale e nella sua appartenenza ad una certa classe

–         uno scrittore non nasce dal nulla, ma da un preciso contesto

–         le sue opinioni, convinzioni, immaginazioni riflettono spesso quelle di un particolare gruppo sociale

E delle caratteristiche sopra descritte se ne occupa il critico che cerca di capire tutti questi parametri. Il francese Lucien Goldmann hanno assegnato a questi fattori addirittura un valore fondamentale sul piano del riconoscimento.

A partire dalla fine del Novecento, negli stati uniti d’America grande interesse ha suscitato il discrimine sessuale: la genesi va ricercata ne fatto che nel passato la maggioranza degli scrittori apparteneva al sesso maschile, sicché gli studiosi americani si sono chiesti il perché dello scarso contributo femminile alla letteratura.

Un famoso libro di Simon de Beuvoir, intitolato “Le deuxieme sexe” (1949) considerato un vero e proprio caposaldo della tradizione femminista novecentesca rivendica le capacità intellettuali e artistiche della donna; denuncia i processi repressivi che basandosi su una presunta diversità biologica, ne hanno sostanzialmente limitato storicamente le possibilità espressive.

Gli studi sulla letteratura femminista, tendono ad evidenziare come le donne siano viste come un gruppo sociale, un ceto particolare, e si può quindi studiarne i modi di accesso all’attività letteraria, o quelli eventualmente di esclusione, attraverso le varie epoche e le arie società. Ad esempio si può cercare di capire in quali campi della letteratura il loro contributo sia stato più ricco e apprezzato.

Un altro filone di studi si occupa dei modi in cui viene presentata l’immagine della donna nella tradizione letteraria, e delle mille forme in cui nelle opere del passato e del presente si riflettono i rapporti esistenti fra i sessi.

Le domande da porsi sarebbero molte:

–         in che modo si rivela nei testi la specifica appartenenza sessuale degli scriventi?

–         Esiste un immaginario femminile dalle sue proprie regole? E come si rivela?

Sul piano descrittivo può essere interessante esplorare nei testi le tracce di una mano, e di una mente, di un cuore femminile anziché maschile, anche se non sarà semplice e sarà qualche volta poco conclusivo.

E per quanto riguarda il lettore, cosa si può dire? Anche qui il discorso diviene complesso alla luce degli studi fatti. I positivisti ad esempio cercarono di capire la “fortuna” delle opere letterarie. In Germania si sviluppò la cosidetta “estetica della ricezione”, a opera di alcuni autori fra i quali sono emersi in particolare Hans Robert Jauss e Wolfgang Iser, e sviluppi similari si sono avuti negli Stati Uniti d’America.

L’aspetto più interessante della teoria della ricezione è quello che insiste sul ruolo del lettore nella stessa fondazione del valore letterario. In effetti, qui, il lettore non viene considerato un elemento passivo della letteratura, ma come colui che ,e attribuisce il senso principale. E’ il pubblico che fa di un’opera un simbolo; che la carica di valori, di aspettative, che l’assume a rappresentare una serie di istanze.

Non esistono in letteratura interpretazioni esatte in assoluto, ma ve ne sono in un certo senso di convincenti, interpretazioni su cui è possibile invocare il consenso di una maggioranza, di una comunità interpretante.

Lo spostamento di interesse di parte della critica nei confronti del lettore può rivelarsi in tutta una serie di lavori: un’opera letteraria è soggetta a un diverso gradimento nel tempo, e di questo gradimento si può rintracciare una storia. Avvicinandoci ad epoche recenti o meglio ancora contemporanee è possibile al limite utilizzare degli strumenti statistici per misurare il gradimento delle opere, in modo analogo a quel che si fa in tante ricerche sociologiche. E’ quindi possibile svolgere indagini sul mondo in cui vengono letti alcuni scrittori nelle scuole, o sul grado di comprensione della stessa poesia in diversi ambiti sociali e professionali.

Nel periodo romantico l’immagine dell’artista veniva costruita come il genio creatore; oggi il rapporto con l’industria, i mass media, le nuove tecnologie cambiano progressivamente il nostro modo di vedere le cose, e cambia il nostro modo di vedere gli artisti e gli scrittori.

Le attese del pubblico, determinanti per il successo o meno di un lavoro letterario, possono indirizzare chi scrive verso un genere oppure un altro, possono influenzare la consistenza materiale dell’opera, la scelta della lingua e dello stile. Tutti questi influssi possono essere indagati e ricostruiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 8.   Il contributo dell’analisi della psiche.

 

Sul fatto che un buon critico letterario debba conoscere il cuore umano, non ci sono dubbi. Chi è più sensibile nella comprensione del reale, sembra esserlo anche nella letteratura. Sigmund Freud ha più volte espresso la sua ammirazione nei confronti delle capacità di analisi psichica dei grandi scrittori. Ad esempio molti dei più grandi critici dell’ottocento si interessavano più della biografia degli scrittori, che della loro stessa opera. Le loro ricerche miravano costantemente a ricostruire il carattere degli artisti, e si basavano largamente su un’acuta e penetrante capacità di analisi psicologica.

Con la nascita della psiconalisi alla fine dell’ottocento subito si è stretto il rapporto fra psicologia e letteratura.

Quali indagini di studio ha aperto la psicoanalisi nella letteratura?

–         la biografia degli autori: la tradizionale ricostruzione biografica di uno scrittore può essere arricchita e potenziata da un’analisi psicoanalitica che miri a spiegare quel che rimane nascosto al ritratto tradizionale (sogni attaccamenti, ossessioni). Comunque sia, ricostruire le nevrosi di cui soffre l’artista è certamente interessante ma la sensazione che si ha è che ad un certo punto ci si sposti troppo lontano da quel che dovrebbe interessare le opere degli artisti.

–         Analisi contenutistica o tematica: consiste nella decifrazione di simboli, ma può essere anche l’interpretazione analogica dell’invenzione narrativa, della trama del racconto o di elementi dell’intreccio. Più racconti, più testi, possono essere interpretativi insieme, cogliendo in essi temi e simboli ricorrenti, rivelatori di problemi o fissazioni dominanti. Ad esempio la psico-critica di Charles Mouron mirava sull’analisi minuta dei testi, secondo una tecnica ben precisa. Essa si basava sull’osservazione e sulla decifrazione di associazioni immagini ricorrenti, per risalire alle ossessioni dominanti.

Nell’ispirazione della psico-analisi junghiana è interessante l’idea che in letteratura si esprime anche il famoso inconscio collettivo: il critico ricercherà nei testi le tracce della voce dell’inconscio collettivo, degli archetipi, così per arrivare nei testi all’identificazione dei nuclei tematici.

–         La psicoanalisi sui personaggi letterari: la psicoanalisi è stata impiegata sui personaggi letterari come se fossero persone reali, il cui comportamento e le cui turbe psichiche possono essere ricostruite fedelmente. Alcuni personaggi letterari sono apparsi agli stessi psicoanalisti costruiti così bene, da poter essere considerati come soggetti reali.

–         La psiconalisi e il linguaggio artistico: l’idea fondamentale è che nel arte l’inconscio trovi modo di esprimersi in maniera particolare e privilegiata rispetto alle normali forme di comunicazione. Queste correnti hanno esplicitamente mosso i loro passi dai lavori di Freud sui “lapsus” e soprattutto dai “motti di spirito”. Se lo studioso ambisce a scoprire il lavoro dell’inconscio sulla pagina dello scrittore, e della stessa materia linguistica che deve partire dall’analisi formale dei testi.

 

Il contributo che la psicanalisi può offrire allo studio della letteratura è molto vario e mutevole, e può esercitarsi sulle singole letture quanto in generale influenzare il pensiero estetico e ideologico. Questo contributo può essere offerto da medici psicoanalisti che si interessino di letteratura, ma anche da critici letterari aperti alla psicanalisi. I primi possiedono una ben precisa preparazione tecnica nella disciplina, i secondo sono meglio in grado di inquadrare certi suggerimenti nella cornice letteraria.

  1. 9.   La filologia.

La filologia è l’attività che mira alla restituzione del testo originale delle opere letterarie, o di un testo il più possibile vicino ad esso. Tale scienza si rende necessaria soprattutto per quelle opere a noi molto lontane, di cui ci sono pervenute più copie, più manoscritti, più stampe. E’ in questo campo che interviene la filologia, ed il filologo, il quale cerca di capire attraverso un’attenta critica del testo, quale stampa o manoscritto è davvero uscito dalla mano dell’autore. E grazie a questa scienza, che oggi, con precisione quasi meticolosa possiamo leggere i grandi capolavori italiani, partendo da Dante, Petrarca, Boccaccio…cosa sarebbe inoltre la poesia italiana del duecento senza la filologia? Senza quelle analisi minuziose che pochi, ma grandi filologi sono riusciti a fare?

Per quanto riguarda il testo con cui ha avuto sempre a che fare il filologo diciamo che grazie all’invenzione della stampa avvenuta all’incirca verso il 1450 è cambiato il processo di trasmissione delle opere. La stampa ha assicurato un certo grado di fissità al testo degli autori, considerando che questo, in genere, viene diffuso in un numero mutevole di copie, tutte uguali.

Nei primi secoli della loro diffusione i metodi di stampa manuale hanno favorito l’intervento dei correttori, succedeva cosi che della stessa opera si avevano almeno due esemplari con relative differenze: tipografi, compositori, correttori di bozze o altri avevano la possibilità di apportare più o meno rilevanti correzioni ai testi che gli venivano consegnati. Ragion per cui oggi,esiste, un settore della critica del testo che si occupa dei problemi posti dalla trasmissione dei testi stampati, problemi che sono simili, anche se non identici a quelli che presentano le opere che ci sono pervenute attraverso manoscritti.

Antecedentemente all’invenzione della stampa abbiamo a che fare con una tradizione manoscritta. I testi manoscritti sono l’uno diverso dall’altro, sono spesso di lettura e di decifrazione molto complessa, ed erano soggetti agli errori degli amanuensi che li hanno trascritti. Talvolta non si trattava di errori, ma vi era la volontà di allontanarsi dal testo originale. Qui la necessità dell’intervento del filologo è ancora più forte, il quale attraverso un’attività certosina, come farebbe un artigiano con il suo prodotto, mira alla restituzione del testo originale.

Suitner sostiene un concetto molto importante allorquando dice che: “quel che si dovrebbe semmai chiedere al filologo è di non ingannare il lettore, dichiarando sempre esplicitamente e onestamente i limiti delle soluzioni editoriali”, ne deriva che la preoccupazione di andare verso il “filologismo” ovvero quella forma di manierismo che finisce con lo scambiare i mezzi con i fini. Fine dello studioso non diviene così la lettura e l’analisi del testo, ma l’esibizione di eleganza e sofisticazione del problema filologico.

Molti lavori di edizione richiedono una competenza tecnica (paleografia, codicologia, glottologia, dialettologia) talmente raffinata che è difficile pensare che l’editore possa essere sempre anche un critico e storico letterario generale, che abbia avuto la possibilità, oltre che la vocazione, di costruirsi una vasta cultura storica oltre che quella specialistica preparazione che gli è necessaria per leggere le antiche grafie, sciogliere abbreviazioni, datare una scrittura, preferire una variante dialettale all’altra, identificare i tratti regionali di un amanuense ecc..

Ogni testo abbiamo detto si modifica nel tempo per vari motivi: per gli errori degli amanuensi, per la volontà degli amanuensi, per errori di stampa, per motivi di censura politica o anche per cause riguardanti l’influsso deformante del gusto letterario dell’epoca…

In quanto scienza, la filologia possiede anche un metodo per l’individuazione e la decifrazione dei testi. La prima grande stagione filologica è stata quella dell’umanesimo: gli umanisti ricercavano i grandi testi dell’antichità greca e latina e ovviamente cercavano di leggerli e diffonderli nella miglior veste possibile.

La grande filologia moderna è nata alla fine del XVIII secolo ed è quella tutt’ora dominante. Alla base vi è l’idea che si possa elaborare un procedimento più possibile scientifico ed esatto per trarre giovamento dall’esame dell’intero corpus di testimonianze che ci trasmettono un testo. Era quello che si prefiggeva Lachmann (1793-1851) con il suo metodo. Dopo aver analizzato tutte le testimonianze di un’opera, si cercava in primis di mettere in luce tutte le dipendenze che i testimoni avevano con l’opera originale, cosi era possibile – secondo Lachmann – definire la posizione di ogni manoscritto rispetto agli altri, e ottenere un quadro di questi rapporti rappresentabile anche graficamente con il cosiddetto “stemma codicum”, qualcosa di molto simile ad un albero genealogico.

La situazione ideale con il metodo di Lachmann si ottiene quando è possibile ricostruire la lezione di un testo, con almeno tre lezioni indipendenti, ad esempio da manoscritti appartenenti a tre diverse “famiglie” di codici. In questo caso, è evidente che l’accordo di due lezioni contro una terza rimasta isolata consente di applicare la cosiddetta legge della maggioranza.

L’importanza del metodo di Lachmann sta nel fatto che il filologo esamina criticamente ai fini della costituzione di un testo, tutta la tradizione, cioè l’insieme delle testimonianze che lo trasmettono.

Il filologo francese Joseph Bedier (1864-1938) ha osservato che, almeno per i testi medievali, la maggioranza degli stemmi proposti  dagli editori finisce col prevedere tradizioni a due rami, sulla base della quali il principio di Lachmann non è applicabile.

Molto importante nella critica di un testo è quella che viene definita “critica delle varianti” che è sostanzialmente l’esame critico delle versioni precedenti un’opera, ad esempio degli abbozzi, delle correzioni apportate dall’autore nel corso dell’elaborazione del testo. Ad esempio quando un autore rielabora l’abbozzo di un romanzo sopprimendo interi capitoli, introducendone dei nuovi, cancellando periodi completi e cosi via, è appunto questo un rifacimento.

La più tipica critica delle varianti, è quella che studia le correzioni minute, di tipo linguistico e stilistico, apportate dall’autore per migliorare il suo testo. In generale queste minute correzioni acquistano un valore molto elevato in poesia. In una lirica infatti, il mutamento di un aggettivo  o di un verbo può produrre importanti effetti sull’insieme.

Un’altra domanda molto importante che ci si deve porre è: quanto l’informatica può servire agli studi letterari? Gli ausili della tecnica possono rivelarsi preziosi negli studi letterari. Il più appariscente risultato dell’introduzione dell’informatica nel settore delle attività umanistiche è la moltiplicazione dei dati che si offrono a chi studia, come del resto a chi svolge qualunque tipo di attività. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti storico-eruditi, gli studi letterari possono avvalersi di tutti quei sussidi che le odierne tecnologie mettono a disposizione della ricerca storica: raccolta dati archiviati elettronicamente su soggetti diversi, bibliografie internazionali rapidamente interrogabili anche a distanza, e soprattutto in prospettiva, possibilità di accesso veloce ai documenti, manoscritti, libri per via elettronica.

Ovviamente non mancano le critiche: le la facilità di ottenere informazioni si è oggi potenziata rispetto a 30 anni fa, la capacità di osservazione dell’uomo rimane nel tempo più o meno la medesima. Es: se anziché accedere a cento libri su Dante, ne posso vedere diecimila, sicuramente si hanno più informazioni sul poeta fiorentino e la possibilità di controllare più particolari, ma la nostra capacità di leggere e comprendere la Divina Commedia non risulta certo moltiplicata per cento. Francesco De Sanctis, maggior critico dell’ottocento in campo europeo possedeva certo un numero di informazioni molto più basso di quello di vari eruditi di oggi, e malgrado questo le sue pagine esprimono spesso una forza di penetrazione critica superiore.

Passi da giganti ha fatto l’informatica in ausilio all’analisi dei testi letterari. E’ questo il caso dell’analisi computazionale: il critico di stile ha sempre osservato che un tale autore usa maggiormente un certo tipo di aggettivazione, che evita alcuni generi di costruzione, che nelle sue opere è massicciamente presente un particolare lessico. Un testo memorizzato nella macchina, può essere impiegato con facilità interrogato per sapere, per esempio, quante volte vi compare una certa parola, quali sono i modi più semplici e tipici di iniziare una frase, quale sia la percentuale di frasi brevi e quale invece quella di costruzioni complesse e via dicendo.

Importantissimo, Suitner, è illuminante in questo senso: “il contributo delle macchine può essere tanto più forte quanto meno debba entrare in campo l’elemento dell’interpretazione e quanto più sia possibile limitarsi all’analisi quantitativa.

Ad esempio gli effetti che produce una poesia, o una prosa, si colgono alla lettura, e non appaiono ricostruibili attraverso un’analisi atomica dei pezzetti che lo compongono.

E informatica e filologia, a che punto siamo?

Diciamo che i maggiori ostacoli all’uso degli elaboratori elettronici in filologia possono ricondursi ad alcuni grandi problemi:

–         in primo luogo le scritture manuali, antiche e moderne, nelle loro svariate e complicate varietà grafiche, non possono essere agevolmente trascritte dalle macchine in modo automatico;

–         queste operazioni risultano essere faticose, tanto da annullare in buona pate il vantaggio dell’impiego dell’informatica

–         le operazioni mentali che si richiedono al filologo nel suo lavoro di restauro non sono in gran parte riconducibili alla logica binaria che governa la macchina.

Risultati molto superiori si possono ovviamente ottenere e sempre più si otterranno nell’esame testuale delle opere a stampa, che presenta evidentemente problemi di gran lunga inferiori.

Attraverso strumenti informatici è però possibile indagare e analizzare i manoscritti in modo molto più vario e penetrante, effettuando fra l’altro confronti, passi di scritture e calligrafie, migliorando opportunamente la leggibilità del materiale del testo, e cosi via. L’elettronica può consentire una presentazione esterna migliore dei vari stadi di gestione di un’opera, delle sue stesure manoscritte, del suo processo correttorio e delle sue versioni a stampa. Questo è un campo nel quale si otterranno risultati prevedibilmente soddisfacenti e notevoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 10.                     Il problema del giudizio

Fra le domande più ovvie che ci studia un testo letterario finisce per porsi, vi sono per esempio quelle riguardano la natura del testo.

Innanzitutto, che cos’è la letteratura? Non è facile comprendere e tracciarne i confini ne tanto meno delineare l’oggetto: capita che opere non scritte entrano nella storia della letteratura, mentre altre scritte che sembrano avere tutti i requisiti ne rimangono fuori. Qui, entra in gioco, quindi, il concetto di critico letterario, e di ciò che egli accetta o non accetta. Ad esempio nell’ultima parte del novecento  si è diffusa una certa tendenza a considerare artisti anche lavori di carattere critico o scientifico, quando questi apparissero in prosa particolarmente notevoli o incisiv.

Effettivamente c’è un problema di “critica letteraria”: la critica letteraria può e deve occuparsi di tutto, ma il suo statuto rimane per tanti aspetti impreciso ed oggetto da sempre di grandi discussioni, verosimilmente eterne. Una di questa riguarda per esempio la sua “natura” scientifica, oppure meno. In verità a questa caratteristica tengono molti studiosi di estrazione accademica, coloro che lavorano nel campo delle università e nei centri di ricerca, e poco nulla gli altri.

Il problema è di sapere esattamente cosa s’intende per scientifico. In generale, a parte alcune posizioni estreme, si ammette che nella critica letteraria si possono avere analisi più o meno fondate, giudizi giusti e sbagliati. Si possono avere opinioni e dimostrazioni sulle quali è possibile invocare il motivato consenso degli studiosi e dei lettori comuni.

Nella grande famiglia della critica letteraria rientrano alcune specificità tecniche come la critica del testo in senso stretto, lo studio dei sistemi retorici, metrici e via discorrendo. In linguistica un mutamento fonetico può essere descritto attraverso una legge scientifica simile nella sua precisione a quelle leggi che si formulano in matematica e/o in fisica.

Un elemento fra quelli che rendono piuttosto precario il parallelo fra critica e scienza è dato dal carattere diverso che vi ha l’idea del progresso. In arte e in letteratura, lo sappiamo, l’idea di progresso è del tutto contrastata, ciò non accade in genere nelle scienze e nella tecnica.

A mio avviso Suitner fa un esempio illuminante che vale la pena trascrivere: “ il trascorrere del tempo  e l’approfondimento degli studi fanno si su un autore sia possibile avere notizie e rilievi di cui prima non si disponeva. Diviene più agevole ricostruire il quadro della sua vita e anche le caratteristiche delle sue opere. In qualche caso è perfino possibile disporre dei suoi scritti che prima non possedevano. Tutto ciò è progresso della conoscenza. Il progresso delle conoscenze è molto spesso di natura prevalentemente erudita o tecnica, e questo influenza fino ad un certo punto la critica dell’opera letteraria, che si fonda in gran parte sul rapporto diretto del critico con l’opera, rapporto che dà i più alti risultati quanto più alta è la personalità del critico. Accade così, e in verità può essere un po’ sconfortante per noi,  che alcuni aggiornatissimi critici contemporanei, perfettamente informati, non riescano a pareggiare la forza di penetrazione che hanno le pagine di grandi studiosi del passato, magari addirittura dei secoli scorsi. Per tutti questi motivi sembra difficile poter parlare di progresso per la critica, nel senso in cui se ne parla per altri fenomeni, senza introdurre questo concetto delle chiare limitazioni.”

I migliori critici non sembrano essere i più eruditi, i più informati, i più tecnici, quanto piuttosto coloro che appaiono in grado di avere una buona comprensione anche della vita e dell’umanità in genere, cioè il nocciolo della letteratura. Il buon critico – e ciò spesso è stato rilevato – deve tendere ad essere un uomo completo, e non lo specialista di una particolare religione delle virgole e degli inchiostri.

In Italia, citando un grande critico del novecento, Benedetto Croce con la sua teoria estetica in opposizione alle tendenze positivistiche, disquisisce sull’autonomia della creazione artistica, e rivendica nello studio di un’opera letteraria il primato della dimensione estetica su quella filologico-documentaria.

Croce ritiene che il giudizio sulle opere, il riconoscimento dell’artisticità o meno di esse, sia il momento culminante dell’attività critica, e questa in se stessa appare una convinzione ragionevole. Croce non contesta la necessità delle indagini documentarie e in qualche modo esterne al letterato, ma non accetta che siano collocate al posto più importante o che possano essere ritenute sostitutive della critica propriamente detta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. 11.                     Luoghi e modi della critica.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato ai luoghi e i modi della critica.

Innanzitutto va detto che il primo critico letterario è in ogni caso il lettore. C’è una sorta di analogia tra il lavoro del critico e le operazioni del lettore, infatti anche lo studioso professionista, passa attraverso la fase della prima lettura, della prima impressione e delle prime descrizioni. Sono passi che anche il lettore naturale compie.

All’inizio del novecento si iniziò a parlare di critico “militante” e critico “accademico”, andando a delineare con la prima dicitura il lavoro che il critico esercitava sui grandi mezzi di comunicazione, mentre con il secondo s’intendeva la critica che si esercitava prevalentemente nelle università e nei centri studio, rivolta in massima parte al passato, alla storia letteraria, impiegando mezzi di ricerca più sofisticati e complessi.

La prima aveva un rapporto più immediato e diretto con il pubblico colto, quello che si tiene aggiornato sulle novità culturali e a suo modo influisce su di esse, la seconda si rivolgeva a una cerchia più limitata godendo per altro di un elevato prestigio.

La critica esercitata sui grandi mezzi di comunicazione vede molto spesso in primo piano direttamente gli scrittori. Talvolta succede che gli scrittori mostrino fastidio nei confronti dei critici propriamente detti, allo stesso modo dei registri teatrali, cinematografici o pittori. Ad esempio: scrittori come Eliot, Mann, Valery, Kundera, e anche tanti altri sono considerati fra i massimi critici del loro tempo nelle proprie aree culturali di appartenenza. Anche negli altri paesi i maggiori scrittori sono quasi sempre critici e saggisti di assoluto rilievo, e si leggono in generale con più piacere dei critici professionali, almeno su determinate materie, per lo più attinenti alla letteratura contemporanea.

I grandi scrittori sono sempre portatori di una riflessione personale e profonda sulla letteratura, e alla luce di ciò che alcuni grandi scrittori vanno tenuti sempre in massima considerazione dal punto di vista critico.

Per ciò che concerne la critica specialistica, storico-filologica, essa si esercita prevalentemente in sue sedi proprie, che sono le riviste specializzate, i congressi scientifici, le collane e gli studi storici, tecnici e via via discorrendo. In tutte le nazioni, con diversità a seconda delle tradizioni locali, esiste una sorta di sistema organizzato per questo tipo di studi e di ricerche. E’ un sistema che è in generale imperniato sulle università e sulle accademie o altro tipo di istituzioni o centri di ricerca. Non è facile per esempio conciliare l’attività di studio ad alto livello con le odierne esigenze di massa.

Alla fine dell’ottocento gli studiosi professionali di una letteratura nazionale si contavano in decine di persone; è evidente che tutto quel che facevano poteva essere vagliato, apprezzato e criticato dall’intera comunità degli studiosi. Lo strumento principe di questa valutazione era proprio la rivista specializzata che in questo modo seguiva e controllava lo sviluppo di un’intera disciplina. Oggi le decine di studiosi sono divenute centinaia e migliaia; nessun studioso può tenersi informato di quel fanno tutti i propri colleghi; lo studioso di valore incontra difficoltà a farsi notare in quanto l’attenzione della comunità scientifica è alterna, precaria, soggetta a circostanze casuali ed esterne, nonché non sempre trasparenti.

 

Giacomo Leopardi: le Operette Morali

Le operette morali sono dialoghi o prese continuate, morali in quanto esprimono attraverso finzioni fantastiche, o meglio, allegoriche, la meditazione leopardiana sull’uomo e sul suo destino, e soprattutto sulla dolorosa situazione del suo animo. Continuamente proteso nel sogno di una felicità impossibile e sommerso nell’angoscia d’un inevitabile disinganno. Nell’edizione definitiva del ’45 i componimenti sono ventiquattro. Il libro si apre con la storia del genere umano, una vasta allegoria nella quale il poeta rappresenta i successivi momenti della sua storia spirituale, e si conclude col Dialogo di Tristano e di un amico, che esprime una virile attesa della morte, solo rimedio all’inutile miseria del vivere. Letterariamente, il Leopardi si propose nelle Operette, un ideale di prosa artistica degna della grande prosa classica, soprattutto greca, applicata ad a un contenuto moderno. Era partito da intenzioni satiriche, <>; o anche <>. Egli sottolineava così la sua solitudine e il coraggio con cui ricercava il vero, fra gli uomini che preferivano confortanti ma false illusioni. Dal ’23 al ’27 il Leopardi, tranne rarissime eccezioni, non scrive più poesie, immerso in una sorta di scorata fissità spirituale, anche se , con significativa contraddizione, proprio in questi anni tenta la sua avventura nel mondo, che si concluderà col fallimento e l’ultimo soggiorno re catanese. Anche per questo le Operette appaiono un bilancio spirituale, una constatazione lucida e angosciata dell’ineliminabile infelicità. Nonostante l’amarezza del disinganno, s’intravede ancora in queste pagine la nostalgia di una felicità, riconosciuta assurda dall’intelletto e desiderata tuttavia con tutto l’essere. Non c’è tuttavia nelle Operette vera cordialità. Si sente che qui il Leopardi ha accettato il suo destino di uomo solo, ripiegato dolorosamente su se stesso, escluso, per la sua stessa lucida e spietata chiaroveggenza, da ogni speranza. Le Operette sono opere intimamente autobiografiche e lirica, un doloroso monologo. Se dialogo c’è, è quello dell’uomo col suo destino, con la natura, con la felicità sognata e impossibile: ma è meglio dire che esso porta alla scoperta dell’impossibilità d’un dialogo autentico. Mentre il poeta si propone le domande sul perché della vita e dell’universo, sa che esse sono destinate a rimanere senza risposta. La moralità consiste pertanto nel guardare in faccia la propria disperazione, gli spazi sterminati dell’universo incomprensibile, e la propria angoscia e nel proclamare, pur nella sconfitta, la propria dignità di uomo, che non si rassegna al buio che circonda la vita.

Dialogo di un folletto e di un giorno

Vero <>, venato d’ironia corrosiva, è questo dialogo, scritto nel ’24. Parlano un folletto e uno gnomo, in un mondo deserto e silenzioso, dal quale la razza umana è per sempre sparita, distrutta da guerre, epidemie e svariati accidenti. E tuttavia l’universo continua impassibile il suo moto: quell’universo che l’uomo, nella sua presunzione, ha sempre ritenuto fatto per sé, per servire alla sua esistenza di re dominatore del creato. Questo è il vero centro satirico dell’operatta, che ha una certa ricchezza d’invenzioni comiche: lo svolgimento del dialogo è arioso e leggero, i due favolosi interlocutori e l’ironia delle loro battute sono come intensificate dal confronto con un mondo defunto.

Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez

Sulla distesa sterminata dell’oceano, nella quiete della notte solitaria, Colombo parla dell’amico Gutierrez. Le speranze che l’avevano indotto all’ardita navigazione, la opinione, sulla quale ha messo a repentaglio la sua vita e dei suoi uomini sembrano ora fallaci, ed egli è soverchiato dal sentimento dell’ignoto. Questa la <> iniziale del dialogo. Quel cielo, quel mare, quegli uomini sperduti divengono il simbolo della condizione umana. L’uomo è solo, nella navigazione perigliosa che è la vita, in un universo indecifrabile. La sua mente che ne indaga le ragioni e le cause si riconosce smarrita. Rimane tuttavia insopprimibile lo spirito della vita, un istinto che è, anch’esso, mistero eterno dell’essere nostro. Perché se la noia e il dolore dominano l’esistenza, c’è pure in essa l’anelito alla felicità,a una pienezza di essere, che la ragione scopre illusoria e tuttavia insopprimibile. Ben vengano, dunque, la navigazione, il balzo nel buio e nell’ignoto: quel rischio che solo, può dare l’illusione di ricominciare a vita in uno slancio costruttivo, facendo per un attimo scordare la consapevolezza del nulla. Il mare, che, all’inizio, presenza sottintesa e pure evidente, aveva portato il senso del dubbio, dell’inesplicabile, porta ora una voce di speranza. Un’aspettativa, soprattutto; ma solo nell’attesa si può vivere l’unica felicità concessa, creare, cioè, con l’immaginazione una realtà conforme alle esigenze profonde dell’animo.

Dialogo della Natura e di un Islandese

L’importanza di questo dialogo, scritto nel ’24, consiste nel fatto che il Leopardi vi risolve in forma per lui conclusiva il problema della relazione fra l’uomo e la natura e della radicale infelicità umana. Ma ora, svolgendo più coerentemente le premesse del suo pensiero, concepisce la natura, come una potenza cieca, meccanica, fatale, intesa solo al perenne ciclo di metamorfosi d’un universo incomprensibile. Essa appare indifferente alla sorte dei suoi figli; non può, ma forse non vuole, aiutarli a conseguire quella felicità che pure ha ispirato in loro come anelito vitale insopprimibile. Il centro lirico del dialogo è nel succedersi delle domande vane dell’islandese e nelle risposte della natura, che non spiegano nulla, ma ribadiscono con agghiacciante indifferenza l’infelicità fatale dell’uomo, la sua solitudine, E sull’ultima domanda dell’Islandese – perché della vita, dell’universo – si stende il silenzio: l’uomo appare sommerso dal solido nulla.

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie

E’ notte, nel gabinetto scientifico del Ruysch, si destano allo scadere del grande anno matematico, le mummie, e cantano un coro in cui si esprime l’arcana fissità del non essere; di una vita, cioè, spogliata d’ogni attesa , d’ogni speranza, d’ogni dolore. E’ quella che il L immagina dopo la morte: un puro esistere senza tempo né mutamento, un rifluire per l’eternità nel ritmo imperscrutabile dell’universo. Che è poi il vero protagonista del coro altissimo e sgomento, privo di immagini, raggelato in un senso di assenza totale, di segregazione dell’essere. Il fantasioso esistere dei morti diviene il simbolo della vita concepita come un nulla fuso con quello della morte, una suprema frustrazione, perché avversa all’ansia di felictà e d’una ragione che dia un senso alla vicenda dell’uomo. Poi entra in scena Ruysch e pone ai morti delle domande. Chiede se fù doloroso il momento del trapasso, ed essi rispondono che no, fu anzi un languore dei sensi, simile al piacere. Ma quando il vivo pone una nuova domanda, sull’essenza e il significato della morte, il dialogo si interrompe. Dopo il grande coro, l’operetta ha un tono discorsivo, fra il macabro e il grottesco: ma la poesia iniziale ha creato intorno al dialogo un’atmosfera <>, sì che l’ironia, presente in molti battute e nella situazione intera, appare la condizione stessa del vivere come assurdo.

Cantico del gallo silvestre

E’ l’ultima delle venti operette scritte nel ’24,e ha il carattere di una conclusione della raccolta. Ne esprime infatti i temi centrali: l’<>, il senso della vita come privazione e come nulla, la fatale infelicità dell’uomo. Si potrebbe dire che questo sia il cantico della morte, intesa come unica possibile conclusione dell’esistenza assurda dell’uomo e di tutte le sue cose. Il gallo silvestre, ridestando gli uomini alla vita, li ridesta alla coscienza di un apparire ineluttabile, di un lento morire ora per ora. E’ lontana dal tessuto di questa operetta ogni forma di argomentazione filosofica. Le singole conclusioni si snodano come una vasta sinfonia di dolore. Essa si rapprende a tratti in immagini nude e grandiose, come quella che accenna alla futura fine dell’universo, al silenzio nudo e alla quiete altissima che empiranno lo spazio immenso. Di qui viene al Cantico il suo carattere di poesia in prosa, il suo tono fondamentalmente lirico.
Dialogo di Plotino e di Porfirio
E’ questa la conclusione del dialogo, scritto nel 1827, in cui il Leopardi immagina che Plotino, un grande filosofo dell’Antica Grecia, dissuada il discepolo Porfirio dall’intenzione di uccidersi, concepita da questo in seguito all’acquisita persuasione dell’assoluta vanità della vita. Plotino (e con lui il poeta) è consenziente con le disperate conclusioni di Porfirio, ma tuttavia lo esorta a vivere, in nome di una saggezza più vera e profonda, fondata non sulla ragione, ma su un senso dell’animo, che ci fa sentire uniti agli altri uomini, nostri compagni di pena, da un fraterno legame d’amore e reciproca pietà. Il suicidio appare dunque al poeta, nonostante il suo pessimismo radicale, come un atto disumano, contrastante con la vita degli affetti in cui consiste la vera umanità.


Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Un anno s’è concluso, un altro sta per sorgere: una pausa nel grigio flusso del vivere, aperta alla meditazione del passato e insieme alla speranza, all’attesa. S’incontrano e parlano per via un venditore d’almanacchi, umile popolano, e un <>, uomo meditativo e pensoso. Sarà quest’anno più felice di quello passato? Certo, lo speriamo; ma dall’altra parte quale felicità sogniamo, se pur mai l’abbiamo conosciuta? Nessuno vorrebbe, e su questo i due interlocutori sono d’accordo, rivivere uno degli anni trascorsi; vorremmo qualcosa di nuovo, d’ignoto in fondo, e d’imprevedibile, perché <> la sola che può essere veramente aperta alla speranza, all’illusione. Quest’agilissima operetta, scritta nel 1832, ripropone, nella sua struttura apparentemente elementare, il nucleo centrale del pensiero leopardiano. La felicità consiste soltanto nella vaga aspirazione a una gioia ignota, nell’attesa, che continuamente risorge, nonostante la consapevolezza amara del vero. Si è insistito sull’ironia, per quanto bonaria e sorridente, del <> nei confronti dell’umile e ingenuo venditore: ma in realtà le due figure appaiono quasi uno sdoppiamento dell’anima del poeta. Da un lato, la ragione che indaga, dall’altra la vita che vuole essere comunque vissuta. L’ironia nasce dalla stessa <> dell’uomo nel mondo, consapevole del suo dolore, del nulla delle cose e tuttavia portato a sognare la felicità.
Dialogo di Tristano e di un amico
Il dialogo, scritto nel 1832, è l’ultima delle Operette morali. E’ fieramente e sarcasticamente polemico in tutta la parte(di gran lunga la maggiore) che abbiamo omessa. Essa richiama alla mente la nuova, combattiva poesia leopardiana, nata dopo i grandi sottili idilli e conclusa con la Ginestra, nella quale il poeta si pone in netto contrasto con le ideologie ottimistiche del proprio tempo e proclama la sua concezione con la certezza che nasce da una fede incrollabile. Domina, in queste pagine, il disgusto contro le accuse dei suoi detrattori, soprattutto contro coloro che avevano interpretato il suo pessimismo come un rifesso dei suoi patimenti fisici. Ma alla fine, nella parte che riportiamo, il poeta si solleva dagli effimeri contrasti con gli uominia una confessione lirica altissima, espressione della dignità di un’anima, sola e impavida davanti al destino. Questa pagina è un distaccato addio alla vita e una coraggiosa contemplazione della morte, che contraddistingue, poi, tutta la produzione leopardiana di questi anni,dal Pensiero dominante alla Ginestra.

I canti leopardiani

 

Caratteri generali

I canti riflettono il doloroso itinerario del Leopardi, ma costituiscono anche la risoluzione luminosa del suo pensiero e della sua chiusa e solitaria pena. La poesia rappresenta il solo conforto al male del vivere. Per questo la poesia del Leopardi non descrive, ma canta. La poesia leopardiana ha sempre il carattere di una scoperta o riscoperta elementare del mondo. Afferma il Fubini che il Leopardi non tanto ci racconta le sue esperienze, ma ci rende immediatamente partecipi di un momento della sua vita interiore. Appare pertanto improprio parlare del Leopardi come d’un poeta pessimistico. La grande poesia leopardiana è sempre una scoperta positiva della grandezza dell’uomo, che la natura, il nulla, il destino non riescono ad infrangere.

 

 

Il primo tempo della poesia leopardiana

La poesia del Leopardi nasce nel 1816 con le Rimembranze e l’appressamento della morte, cui seguono fra il ’17 ed il ’18 le due Elegie. L’infelicità individuale cerca ancora di trovare un compenso nella speranza di un’azione(il riscatto dell’Italia). Nel declino della  storia del mondo vede raffigurata la storia stessa della sua anima, dalle dolci illusioni all’<<arido vero>>. I due canti più importanti di questa tendenza, che potremmo chiamare storico-mitologica, sono il Bruto minore(’21) e L’ultimo canto di Saffo(’22) che segnano il tramonto del mito della classicità come età eroica, dominata dalle grande illusioni e quindi più generosa e meno infelice di quella presenta. Bruto e Saffo sono due figure autobiografiche ed esprimono il crollo degli ideali del poeta. Si ha in esse il passaggio graduale da un pessimismo storico ad un pessimismo cosmico. Questo primo tempo della lirica leopardiana presenta dapprima un tentativo di fusione delle forme classicheggianti con una sensibilità moderna e romantica.

Il secondo tempo della poesia leopardiana

La lunga pausa di silenzio poetico dal ’22 al ’27, coincidente con una maturazione delle concezioni del Leopardi, è interrotta soltanto da due canti. La poesia leopardiana riprende nel ’28, col Risorgimento, annuncio dolente e insieme festoso di una rinnovata vita dal cuore, che, pur nella piena consapevolezza del disinganno, ritorna a palpitare, a illudersi, a sognare la felicità, anche se chiaramente avvertita impossibile. Nascono i cosiddetti grandi idilli. Il poeta ritrova intatta nella memoria la favola della sua giovinezza, la sua sete d’infinito, le sue speranze e anche l’ansia struggente con cui le concepiva.

Il terzo tempo della poesia leopardiana

Se i grandi idilli rappresentano un vertice della poesia leopardiana, un momento di raro equilibrio spirituale e poetico, non ne esauriscono tutte le voci e le esigenze. Negli ultimi canti ritroviamo il poeta affranto ma non rassegnato, inteso a un’affermazione piena della propria dignità e della propria grandezza. Questo è soprattutto evidente nei canti ispirati all’amore per la Targioni Tozzetti, e nella Ginestra, dove la resistenza al destino culmina in una ritrovata fraternità umana e in una pietà combattiva, in un invito agli uomini a combattere contro la natura matrigna. Accanto a questi canti, le due canzoni sepolcrali e il tramonto della luna, compiuto l’anno stesso della morte, ripropongono il senso di una stanchezza desolata, del mistero insondabile che pervade la vita. Ma l’ultimo canto è ancora uno sguardo pieno d’amore rivolto alla giovinezza, e unisce all’estrema rinuncia alla vita un senso d’inappagata nostalgia.

 

 

Per una poetica dei Canti

Sembra lecito da questi due passi ricavare alcune conclusioni generali:

1.       La poetica leopardiana si modifica nel tempo.  Dalle canzoni civili, legate a propensioni stilistiche e strutturali e a un modello di poesia-eloquenza classicistici, giunge al nuovo linguaggio polemico e demistificatore della Ginestra, dopo essere passata per una fase idillica che costituisce un rovesciamento del genere letterario chiamato con questo nome: un ritorno a una spontaneità nativa di affetti e di dettato, di là da convenzioni letterarie ormai sclerotizzate.

2.       Le modalità strutturali – espressive di questo processo si definiscono intorno ad alcuni nuclei tematici:

a)      Sostituzione, dopo le canzoni civili, alle figure eroiche esemplari poste fra l’io e la realtà con funzione nobilante della diretta testimonianza dell’io, nella sua drammatica opposizione alla natura. Al posto, cioè, dell’<<io>> che vuol <<procombere>> nella canzone Italia mia, o di Bruto e Saffo come <<doppio>> del poeta, si ritrova la sua persona, con il suo dramma e la sua sconfitta esistenziale non rassegnata, proiettati su sfondi cosmici interminati.

b)      Volontà di una poesia che si confronti con le ragioni supreme del vivere e del morire, pur nella consapevolezza del proprio  scacco ideologico. All’approdo agnostico, alla convinzione dell’inesplicabilità del reale e del dolore, la poesia leopardiana oppone le domande che sanno già di non potere ottenere una risposta, ma che rivelano, nel loro proporsi, un’ansia di giustificazione e di verità.

c)       La poesia come gesto di protesta dell’io davanti al silenzio di spazi sterminati che si confondono con il nulla, con l’assenza totale di significato.

d)      La poesia come lirica, come <<esplorazione>> della propria interiorità.

e)      La poesia come canto.

f)       La rimembranza come continuità della persona

Fra idillio e protesta magnanima prendono corpo, nella poesia leopardiana, tutte le gioie negate dal <<fato indegno>>: la giovinezza, l’amore, la gioia dell’attesa, la scoperta, nella stessa capacità di formulare illusioni di felicità, d’una superiore creatività dell’animo. E’ insieme si afferma la renitenza al fato, la lotta contro il destino, che consiste non in un impossibile vittoria, ma nel coraggio dello sguardo e della denuncia.

Poesia ingenua e poesia sentimentale

Il Leopardi riformula la sua teoria dell’opposizione di poesia classica e poesia romantica che aveva formulato agli inizi della sua meditazione, ma accogliendo ora le due forme nella loro dimensione storica, non normativa(nel senso d’un tipo di poesia da accogliere e d’un altro da respingere); consapevole che la poesia del cuore è il destino non eludibile del poeta moderno, mentre quella d’immaginazione non può esistere se non come nostalgia d’una comunione perduta con la natura. La nuova poesia si caratterizza su due tematiche nuove, il sentimentale che nasce dall’accorata meditazione del vero, d’una conflittualità fra uomo e natura(o vita), e l’infinito, con ansia di orizzonti esistenziali intravisti e negati, di superamento del limite umano dietro una inesplicabile suggestione del cuore. Sono temi di fondo dei Canti.

La lirica

L’idea d’una poesia come forte impulso sentimentale e fantastico, concentrato nel tempo, rapido, con le conseguente esaltazione della lirica come genere letterario privilegiato che il leopardi ha in comune con tutta una zona del romanticismo europeo, conoscerà più ampie fortune più avanti con E.A. Poe e coi Simbolisti francesi, e giungerà fino a Benedetto Croce, al frammentismo del primo novecento, agli Ermetici. Altrettanto moderno è il polemico abbandono dell’idea della poesia come imitazione, che risaliva ai grandi pensatori greci, a Platone e, soprattutto, in senso positivo, ad Aristotele. Il poeta, dice il Leopardi, imita se stesso, da voce alla <<natura>> che si parla in lui. Ma natura, lo sappiamo significa per lui vita, non è lo Spirito o Assoluto dei Romantici, da quali il nostro poeta rimane pertanto ideologicamente distinto. Eppure quella <<natura>>, ora che il Leopardi è giunto ormai a definirla come un ordine arcano e avverso all’uomo delle cose, va oltre questo pensiero <<filosofico>>, e coincide con la prima intuizione che il poeta ne ebbe: significa spontaneità nativa dell’essere, del sentimento, della fantasia. E’ questa idea nuova di poesia che il Leopardi oppone, nel secondo pensiero qui riportato, al <<vero>> dei Romantici. La poesia  ha come fine il bello, non il vero, e il bello è la vita che la coscienza sogna e instaura contro il vero che l’opprime; è  <<i tristi e cari/moti del cor>>, le illusioni, la nostalgia d’una felicità perduta, la creatività della mente umana, il sogno di una vita più autentica.

Poesia e vita

Comune ai quattro pensieri qui riportati (cui va idealmente aggiunto il pensiero che si trova nella scelta antologica che si è operata in precedenza dallo Zibaldone e che si è qui inserito sotto il titolo Amore, illusioni, poesia, sulla felicità provata nel tempo del comporre) è il riconoscimento della nobiltà della poesia, come creazione di bellezza, espressione della suprema dignità dell’animo umano, come pienezza ed intensità di vita, e dunque come esperienza attuale d’infinito che può giungere fino alla felicità; anche se il primo passo lo compara, secondo la dialettica leopardiana, alla morte, all’oblio. Ma si tratta pur sempre d’un opporsi alla materialità brutale del vivere nel limite e nell’inautenticità. Si sono scelti passi scritti dopo la delusione fondamentale rappresentata nel dialogo della natura e di un islandese, per sottolineare come, anche dopo la rivelazione dell’<<orribile mistero>> delle cose e della vita, la poesia rimanga per Leopardi un ideale altissimo: vita della coscienza che si oppone alla non-vita cui l’uomo è condannato in un universo non fatto per lui, e dunque protesta magnanima che mette in evidenza il <<sublime>> presente, inesplicabilmente, in lui.

All’Italia

Concepita, insieme con l’altra, Sopra il monumento di Dante, nel 1918, dopo la visita del Giordani a Recanati, questa canzone esprime l’ansia d’eroismo e di poesia, di una piena affermazione, cioè, di sé, in cui s’era consumata l’adolescenza solitaria del poeta, aperta ai grandi sogni e alle attese magnanime. Insistiamo su questo motivo autobiografico, perché qui il sentimento patriottico si confonde con quello della gloria, che culmina nell’offerta e nel sacrificio di sé dei vv. 36-40 e nel finale presentimento d’immortalità, conseguita mediante la poesia. Manca del tutto la visione della situazione concreta e dei problemi dell’Italia presente, sì che ad essa si sostituisce, a un certo punto, spontaneamente la Grecia antica: una patria eroica e poetica, per così dire, non reale. Evidentissimi sono, nella canzone, gli influssi  dell’Alfieri e del Foscolo, e l’anelito a una poesia che sia, insieme, vaticinio. Ma purtroppo alla loro si unisce l’influenza del Monti(al quale la canzone fu dedicata); donde il prevalere di un’eloquenza grandiosa, che appare spesso enfatica. L’ispirazione è sincera, nei limiti che abbiamo indicato, ma è tradita da un linguaggio convenzionale, legato ad una tradizione retorica consunta, non scavato e ritrovato nel profondo, tranne che in qualche momento di più immediato slancio affettivo. La canzone tuttavia fu salutata con entusiasmo dai letterati e dai liberali del tempo.

Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica

La canzone fu scritta nel Gennaio del 1820. Doveva essere l’ideale prosecuzione delle due prime canzoni civili, per il suo intento patriottico(il richiamo, traendo lo spunto delle scoperte filologiche del Mai, all’Antica gloria d’Italia, l’ansia di un <<risorgimento>> dall’avvilimento presente); ma in effetti è incentrata su un <<filosofia della storia>>(De Sanctis) amara e sconsolata. I grandi italiani qui  revocati impersonano, infatti, i momenti d’un progressivo decadimento dell’umanità eroica d’un tempo a quella attuale, meschina e prive d’ideali. Siamo ancora nella fase del cosiddetto pessimismo storico del Leopardi: alla contrapposizione, cioè, degli antichi ancor vicini alla natura e aperti quindi alla suggestione delle illusioni, incentivo alla vita eroica e conforto al dolore del vivere,e dei moderni, che il prevalere del raziocinio ha privato d’ogni illusione e sommersi nel tedio che consegue alla scoperta della vanità d’ogni cosa umana. Questa concezione riflette un’esperienza autobiografica. La storia che il Leopardi delinea da Dante all’Alfieri è quella della sua alternativa di speranza e disinganno, considerata ora alla luce della nuova e disperata consapevolezza che il Nulla è la sola realtà del nostro esistere. Scriveva in questo tempo il poeta nello Zibaldone:<<Io ero spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla mio medesimo. Io mi sentivo soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla>>. E tuttavia si tratta d’una scoperta non rassegnata, cui già il Leopardi contrappone paradossalmente l’assurdo dell’illusione, dell’amore, della poesia, e il costante impeto eroico di resistenza al destino. Alla scoperta della vita come delusione e come fatale e tragica assenza, è unita l’esaltazione di Dante, di Colombo, d’Alfieri, cioè dell’agire magnanimo, anche se vano, come suprema affermazione, pur nella sconfitta, della dignità dell’uomo.

Ultimo canto di Saffo

In questo canto, scritto nel maggio del 1822, il poeta accoglie la leggenda secondo la quale Saffo, la grande poetessa greca. Sarebbe stata benissimo, e, respinta, per questo, dal giovane Faone, da lei appassionatamente amato, si sarebbe uccisa gettandosi in mare dalla rupe di Leucade. Il canto è, appunto, il monologo della fanciulla prima di morire, un’accusa alla natura e al destino, che le hanno reso impossibile la felicità e l’hanno condannata, incolpevole, a una vita dolorosa e vana. E’ una lirica autobiografica: il poeta dice di avervi voluto rappresentare <<l’infelicità d’un animo dedicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in corpo brutto e giovane>>, condannato, per questo, a non trovare nel mondo corrispondenza d’amore. E’ quindi il canto del crollo dell’ultima illusione, l’amore. Ma l’ispirazione poetica più profonda è un’altra. Saffo che effonde inascoltata la sua pena nella notte tranquilla, che invano si protende verso la divina, dolcissima bellezza del mondo, esprime un motivo tipico della più grande poesia leopardiana: il desiderio di comunione con l’infinita bellezza della natura e il tormento di sentirsene esclusi, il senso del limite umano, reso ancor più doloroso dal fatto che inesplicabile appare la ragione del nostro vivere e del nostro soffrire. L’apparente invito della bella natura cela dunque una tragica assenza.

Il passero solitario

Scritto intorno al 1829, questo canto fu posto dal Leopardi, nell’edizione napoletana dei Canti(1835), prima degli Idilli composti fra il ’19 e il ’21, che sono raffigurazioni di aspetti della natura e della vita e, insieme, un effondersi mesto e sognante dell’animo. Il Leopardi lo sentì come un ideale prefazione ad essi: quella rappresentazione di se stesso, che vive commosso l’incanto della primavera e tuttavia non partecipa alla sua gioia diffusa, quell’uscire, solo, già verso il declinare del giorno e leggere nel sole che tramonta il proprio e il comune destino di labilità e di morte, rivelano un’appartarsi sconsolato e insieme nostalgico della vita, un desiderare le sue gioie, contraddetto dal presentimento dell’ineluttabile delusione. E’ l’atteggiamento psicologico da cui nascono gli idilli. Il canto è imperniato sul parallelo che il poeta svolge fra se stesso e il passero solitario, dal quale emerge l’immagine d’una giovinezza schiva che trova nella poesia l’unico conforto, ma non si che non le resti il rimpianto di una vita e di una gioia non vissute. I momenti più felici sono quelli nei quali la memoria ritrova l’incanto di quella primavera lontana e rivive la promessa di felicità.

L’infinito (endecasillabi sciolti)

Dal ’19 al ’21 il Leopardi compose alcuni canti che pubblicò fra il ’25 e il ’26 sotto il titolo degli idilli. Sono: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, e il frammento XXXVII. Idillio significa, in greco, piccolo quadro, piccola immaginazione. Era nella letteratura greca antica, una visione circoscritta e aggraziata di vita pastorale, una poesia  che ricercava un contatto fresco e immediato con la natura. Ma nel Leopardi esso diviene un quadro tutto interiore, dove le immagini naturali sono soprattutto un pretesto per esprimere <<situazioni, affezioni, avventure storiche>> dell’animo: un improvviso risentirsi dello spirito immerso  in una contemplazione solitaria della natura e un suo attingere, di là dagli oggetti – ma sostanzialmente uno scoprire dentro di se – un’intuizione elementare e profonda della vita. Per questo, il Russo ha proposto per gli Idilli, pensando soprattutto all’Infinito, che è il più grande, la definizione di inni sacri in quanto c’è in essi un tono d’intuizione vagamente religiosa, il ritrovamento, dietro le forme usuali dell’accadere, d’un significato universale, il tentativo d’un contatto diretto con la realtà profonda dell’io e delle cose. Va, però, aggiunto che la parola religiosa è usata qui in senso metaforico, il Leopardi, infatti, non ritrova Dio in queste sue meditazioni, ma il senso di un’immensità che egli,a volte, vide coincidere col nulla, con ciò che non siamo né possiamo essere; con la negazione, cioè, di questa vita limitata e circoscritta e tuttavia inspiegabile aperta a un presentimento di assoluto e di eternità. Per questo gli idilli, nei momenti più intensi, partono da un senso di negazione, di esclusione. Lo vedi, qui, nella situazione iniziale: lo sguardo del poeta è limitato da una siepe che gli preclude la vista dell’orizzonte lontano, e che diviene spontaneo simbolo della vita circoscritta nello spazio e nel tempo. Eppure, proprio questo limite ridesta più intenso il bisogno di un di là, di un infinito che l’anima scopre non nelle cose, ma ripiegandosi in sé, nel proprio centro, e se lo figura come spazio interminato, quiete profondissima. E per poco il cuore non si spaura davanti a quell’immensità che sembra sommergere, annullare la vita fragile dell’io. Poi, un soffio di vento riconduce il senso del moto, della vita, del tempo. Ma è come una nuova siepe, che spinge il poeta all’intuizione che ciò che è al di là dal tempo, cioè dell’eterno. Ed egli si abbandona dolcemente a quest’idea pura dell’infinito creata dalla sua mente. Nell’Infinito, dunque, conta non tanto il paesaggio reale, ma quello immaginato. A partire soprattutto dal 1821 il Leopardi insisterà, nello Zibaldone, sull’<<indefinito>> come fonte di poesia, nella Storia del genere umano(1824) parlerà di <<spasimo>> dell’infinito,, di cui gli uomini, sono insieme, <<incapaci e cupidi>>. Il sentimento di esso coincide con lo slancio dell’immaginazione e del cuore, con la loro ansia d’una vita autentica, e cioè della felicità, senza il limite della sventura e della morte.

Alla luna

L’idillio, è del ’19, lo stesso anno dell’Infinito; esprime un tema importantissimo degli idilli più maturi, quello della ricordanza(da ricordanza, era il suo titolo primitivo). La dolcezza del ricordo , ci dice il poeta, persiste anche quando la vita presente è triste e il ricordo è di cosa dolorosa. Più tardi approfondirà questa intuizione e ne troverà la causa: la memoria riscatta dal nulla l’esistenza passata, ridona ancor fresco l’incanto della giovinezza perduta, dà vita e consistenza alla storia della nostra anima, che si dissolverebbe, altrimenti, attimo per attimo nell’oblio. L’idillio si snoda con un estrema linearità, emulando la semplicità dei poeti idilliaci greci(Mosco e Bione, che il Leopardi allora traduceva). Notevoli sono la schiettezza del linguaggio e la dosata modulazione metrica.

La sera del dì di festa

Tre sono i temi di questo idillio scritto, probabilmente, nel 1820: l’incanto d’un paesaggio lunare, che sembra esprimere il desiderio di un intima comunione con la natura, con la divina bellezza del mondo; poi il senso tormentoso dell’esclusione; infine un canto che si perde nella notte e diviene simbolo dello svanire irrevocabile della vita nel nulla. Mirabili, e fra i più alti della poesia leopardiana, il primo e il terzo momento, trasfigurazione lirica di spunti mediativi consueti. Si legga,per il primo la lettera al Giordani del 6 marzo 1820: <<…Poche sere addietro prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo>>. E per il secondo si legga questo passo dello Zibaldone, del ’19: << Dolor mio nel sentir a tarda notte, seguente al giorno di qualche festa, il canto notturno dei villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati, ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco>>. Meno originale, anche se psicologicamente sincera, l’espressione dell’angoscia amorosa del poeta, ispirata a suggestioni letterarie preromantiche e ortisiane. Tuttavia ha anch’essa una funzione dinamica nell’insieme. La rivelazione dell’infinito, suscitata dall’immensità della notte luminosa e tranquilla, si rivela, attraverso l’immagine dell’amore negato, inattingibile, e di qui nasce la coscienza della vanità della vita, del declinare dell’uomo e d’ogni cosa nel nulla.

Alla sua donna

La canzone, composta nel settembre del ’23, è una delle poche interruzioni del silenzio poetico del Leopardi fra il  ’22 e il ’28. Scritta alle soglie delle Operette morali, ne preannunci il tono di persuasioni radicate, avvolte da un velo d’ironia che non riesce a celare il rimpianto per i dolci errori perduti, di meditazione svolta apparentemente su di una trama concettuale, ma ancora intimamente scandita dai moti del cuore. Nell’atmosfera rarefatta e tuttavia vibrante del canto c’è ancora l’eco dei primi idilli, soverchiata, però, dalla consapevolezza del poeta del proprio fatale destino di solitudine fra gli uomini, ribadita dal viaggio a Roma, dall’esperienza negativa di quel primo contatto con la società. Il colloquio umano ricercato fin ad ora appassionatamente, appare impossibile: resta soltanto il dialogo con i propri sogni, dolcissimi, ma irreali. Il canto è dunque un doloroso addio alle illusioni, nel momento in cui più amara si rivela la loro inconsistenza; soprattutto alla più alta di esse, l’amore, perenne e inesplicabile risorgere della speranza, del desiderio di vita di là dalla consapevolezza del dolore e del nulla come legge implacabile del vivere. L’ispirazione più intima è proprio il senso perplesso e smarrito di questo paradosso esistenziale: assurde sono le illusioni, e tuttavia rappresentano l’unica, vera realtà dello spirito umano, la sua risposta al nulla che lo sommerge. Anzi, dall’accettazione della negazione, dell’assenza, si leva più libero e puro un superstite inno all’amore, mito che in sé racchiude la bellezza, la gioia, la poesia, l’ansia di vita, di felicità, d’infinito, sempre distrutta dalla realtà, e sempre risorgente. <<O non bisognerebbe vivere – scriveva il Leopardi al jacopssen – o bisognerebbe sempre sentire, sempre amare, sempre sperare>> e <<In effetti appartiene solo all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di sui sia capace>>. Fra queste affermazioni si svolge idealmente l’arco meditativo di questo canto.

A Silvia

A Pisa, una città che gli fu cara proprio perché gli ricordava Recanati, nella primavera del ’28, il Leopardi riprese a comporre versi <<veramente all’antica e con quel suo cuore di una volta>>, dopo sei anni di silenzio poetico pressocchè totale. Erano stati gli anni delle Operette morali, della consapevolezza dell’arido vero e della vanità d’ogni speranza. La poesia che ora risorge è quella dei ricordi, del ricordo, soprattutto, delle illusioni della giovinezza perduta, della sua attesa, della sua speranza. Si direbbe che soltanto ora che il suo pensiero ha definitivamente scoperto la vanità totale di esse, il poeta ne avverte il fascino più intenso, scopre in esse l’unica ricchezza del cuore. Nasce così, dal ’28 al ’30, una nuova fase della poesia leopardiana, caratterizzata dal ripiego interiore, che comprende i cosiddetti secondi o grandi idilli: A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, tutti ispirati dall’ambiente re catanese. A parte va invece considerato quello conclusivo della speranza idilliaca, Il canto notturno di un pastore errante. In questo idillio, nella figura di Silvia, il poeta ritrova il dono più bello dell’adolescenza: l’attesa trepida e suggestiva dell’amore. Quel canto di fanciulla che si effonde nel maggio odoroso appare come un’arcana promessa di felicità, accompagna le meditazione senza parole al balcone, lo struggersi dell’animo dinanzi alla soavità della primavera. E’ una musica dolce e fuggitiva, come quel fiorire dell’anno e della vita, come quella fanciulla già condannata a una morte precoce, come la speranza del poeta, destinata anch’essa a crollare all’apparir del vero, di una realtà, cioè, che non può essere se non di dolore. Un amore sognato, dunque, più che vissuto, non realtà, ma attesa: questa, la sostanza del canto. Identificare Silvia,, darle il nome di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ancor  giovane di mal sottile, interessa poco. Ce lo conferma un’annotazione, anteriore di anni, del poeta: <<Storia di Teresa fattorini, da me poco conosciuta, e interesse ch’io ne prendeva, come di tutti i morti giovani, in quel mio aspettare la morte per me>>. Cosicché non ci stupiamo quando ella, a un certo momento, scompare nel canto e subentra, al suo posto, la personificazione della Speranza e a lei il poeta parla con lo stesso accento con cui prima aveva parlato a Silvia. In questa immagine femminile, il Leopardi ha, infatti, cantato il mito della giovinezza.

Le ricordanze

E’ il poema della memoria, della giovinezza dolce e perduta che riaffiora nel ricordo, suscitata dalle immagini de luoghi dove si svolse. Al poeta, ritornato dopo un’assenza di tre anni, a ragionare con le stelle dalle finestre della casa paterna, ogni cosa intorno ridona intatti i sogni d’un tempo, le speranze, il ricordo delle illusioni più care. Intatti, e tuttavia per sempre perduti; e nella gioia del ricordo s’insinua, per questo, la malinconia di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Questo canto è il culmine della poetica dell’idillio, secondo la quale, come annotava in questi anni il poeta nello Zibaldone, << la rimembranza è essenziale e principale al sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual che egli sia, non può essere poetico>>; e la poesia, quindi, << si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago>>. E sin dall’inizio, il poeta fonde col tema della ricordanza quello dell’infinito, ritrovato nei sogni dell’adolescenza, nello slancio del suo cuore d’allora. Composto a Recanati fra il 26 Agosto e il 12 Settembre del ’29, questo canto è legato al natio borgo selvaggio, <<povero sfondo di desideri sterminati>>, come dice il Momigliano, che lo paragoa, come limite invalicabile, schiudeva il cuore del poeta all’ansia della pressione d’assenza, di nostalgia, non mai di possesso: i sogni d’allora, il ricordo d’adesso costituiscono un protendersi verso la vita negata. Il canto procede liberissimo, senza un apparente struttura, seguendo le suggestioni e le libere associazioni della memoria. Le strofe ripropongono la forma sempre nuova il duplice tema della dolcezza del ricordo e della tristezza del presente, finché nella figura finale di Nerina, prevale la malinconia della giovinezza per sempre spenta.

La quiete dopo la tempesta

Fu composto nel settembre del ’29, poco prima del sabato del villaggio: l’uno e l’altro sono considerati da molti critici l’espressione più perfetta della poesia più idilliaca leopardiana. Indubbiamente, mai forse come in questi idilli il poeta ha trovato una misura così pura e limpida di canto, mai è riuscito a immergersi nelle cose e a leggere, nel contempo, nelle occasioni più semplici, negli aspetti più umili della realtà, il significato della vicenda del vivere. La Quiete è divisa in due momenti, uno prevalentemente figurativo, l’altro prevalentemente riflessivo. Hai dapprima un paesaggio, reale e, insieme simbolico. La quiete e l’alacrità che ritornano dopo la tempesta esprimono spontaneamente l’immagine della vita, di continuo protesa verso la felicità, nonostante la presenza sempre incombente della morte. Nella seconda parte del canto subentra la riflessione: il piacere non esiste in sé, esiste soltanto la cessazione del dolore, questa sola ci dà l’illusione della felicità. E riaffiora la ribellione contro l’antica natura onnipossente che ci fece all’affanno. Ma il momento migliore dell’idillio è costituito dalle immagini fresche e limpide dell’inizio, da quel miracolo della vita che torna. Nella poesia leopardiana ritroviamo sempre, di là dalle affermazioni più desolate, un insopprimibile amore per la vita.

Il sabato del villaggio

Il sabato è migliore della domenica: il piacere, cioè, consiste nell’attesa di un bene, non nella presenza effettiva di esso, che la <<filosofia>>leopardiana ha ormai dimostrato impossibile. Questo il tema meditativo del canto, che si riallaccia alla Quiete dopo la tempesta: anche là, in fondo, il piacere consisteva nella cessazione del dolore, nell’illusione e nell’attesa. Il concetto è calato in una rappresentazione, reale e insieme allusiva, in un quadro di vita semplice, quotidiana. Il fascino dell’idillio è nella freschezza con cui è colta la vita del villaggio, immerso nell’attesa della festa; in quel crepuscolo che si protende nelle speranza d’un’alba radiosa. In una successione di li limpide scene cogliamo la gioia che suscita nell’animo degli umili abitanti il presentimento della festa: è il tempo dell’illusione, che si snoda in un succedersi di atti che hanno il ritmo d’una danza. Poi, in cinque versi, il poeta esprime la sua triste consapevolezza del disinganno: la festa, domani, non porterà la gioia sognata, ma solo tristezza e noia. Eppure il tono della conclusione non è amaro, ma sfuma nell’affettuosa mestizia con cui il poeta esorta l’adolescente a godere il sabato della sua vita, cioè la propria età di speranza indefinite e radiose. Essa ritornerà, nella sua memoria di adulto, come l’unico suo momento felice, perché la felicità non può consistere che nell’attesa e nel sogno, o nella loro ricordanza.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

E’ l’ultimo dei grandi idilli, anche se nell’edizione dei canti è preposto al sabato e alla Quiete; fu composto a Recanati fra l’ottobre del ’29 e l’aprile del ’30. Lo spunto fantastico venne al poeta dalla lettura di un libro di un viaggiatore russo, il quale raccontava che i pastori Chirghisi(un popolo dell’Asia centrale) passavano la notte seduti su un sasso, guardando la luna e improvvisando canti tristissimi; una notizia che fece certo ricordare al poeta le sue lunghe notti solitarie, il suo vano e pur dolce ragionare con la luna e le stelle dell’Orsa, piene di accorate domande senza risposta, come quelle del pastore errante di questo canto. La scelta di questo personaggio, essere primitivo e immune da ogni preoccupazione intellettualistica, consente al poeta di cogliere il dramma della condizione umana nella sua forma elementare. Le domande che il pastore si pone, sono le stesse che si pone il Leopardi, il filosofo maturo; e, come il pastore, ad esse non sa trovare risposta. Sul piano concettuale, questo è lo svolgimento del canto: la constatazione della nostra assoluta e invalicabile ignoranza del perché della vita, congiunta alla certezza che essa è dolore e termina nella morte e nel nulla, porta alla conclusione che la vita è male, miseria inutile. Nasce di qui il sentimento della noia, riflessione di questa scoperta vanità. La bellezza del canto non consiste nei singoli ragionamenti, ma nel sgomento del nulla e dell’angoscia dell’uomo, sperduto in un universo incomprensibile e sterminato. La situazione fantastica diviene così spontaneamente simbolica. Il pastore è l’uomo, nel suo vano e monotono peregrinare terreno, disperatamente solo nel deserto del mondo: La luna, bella e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra suggerirci una promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua bellezza, e, d’altra parte, osserva impassibile e muta il nostro destino.

A se stesso

Fu composto nel 1833, dopo il crollo dell’ultima illusione del poeta: l’amore appassionato per Fanny Targioni Tozzetti, che, per un breve istante, gli aveva fatto credere possibile la felicità in terra e che, per questo, era stato vissuto con pieno e consapevole abbandono. Il disinganno portò quindi con sé il crollo radicale d’ogni residuo mito, d’ogni superstite illusione. Anzi, come vediamo in questo canto, è ora il poeta stesso a rigettarli violentemente da sé, per affrontare l’ultima lotta contro il destino, senz’altra arma che la coscienza del tragico vero e della propria eroica ribellione. E’ questo uno dei vertici della poetica antidilliaca, che abbiamo definito nell’introduzione a il Pensiero dominante, caratterizzata, ripetiamo, da una nuova energia nata dalla consapevolezza della propria dignità morale, che porta il poeta ad assumere coraggiosamente la propria condizione di uomo e a contrapporla al mondo cieco e crudele della natura. Dominano dunque in questo canto, insieme all’energica affermazione di sé, la passione per il vero, il ripudio d’ogni conforto, un pessimismo combattivo. Lo vediamo anche nello stile duro, martellato, privo di immagini e di abbandoni musicali e sognanti. Le frasi raggelate e scarnite, le affermazioni recise, le frequenti spezzature del verso, danno alla lirica un’intensa concentrazione drammatica.

La ginestra o il fiore del deserto

Scritta nel ’36, a Napoli, in una villetta alle falde del Vesuvio, la Ginestra fu posta dal poeta a conclusione dei canti come approdo della sua vicenda spirituale. Il tema è la lotta dell’uomo contro la <<natura>>. Del poeta, in primo luogo, dato che la sua persona e la sua vicenda sono continuamente al centro della poesia; ma qui più che altrove la sua esperienza tende ad assumere un significato universale ed esemplare. Allo stesso modo, il paesaggio vesuviano, che parla di squallore e di morte, il cielo che si stende infinito e lontano, inaccessibile e indifferente divengono un paesaggio reale e insieme metafisico: il simbolo della condizione umana nel mondo. Su questa prima intuizione si snoda il tessuto meditativo del canto. La natura <<matrigna>> è intesa soltanto alla distruzione dell’uomo, alla perenne metamorfosi di una vita meccanica e assurda del cosmo, nessuna voce risponde al grido di dolore che si perde negli spazi sterminati di un tutto incomprensibile che assume, per questo, l’aspetto d’un solido nulla. E tuttavia nel rendersi pienamente conto di questa amarissima verità, nella virile, impavida accettazione della morte e della sofferenza fatale, nella denuncia del mal che ci fu dato in sorte, l’uomo rivela la sua nobiltà. Questa tensione eroica non si esaurisce in un ambito soggettivo: il Leopardi esce dalla sua solitudine, afferma le proprie concezioni del mondo, ritrova una presenza fraterna nel desolato universo. Nasce di qui il messaggio della Ginestra: gli uomini devono guardare in faccia il destino, con magnanima consapevolezza, opporsi ad esso costruendo un mondo veramente umano, fondato sulla solidarietà nel dolore, la compassione, la fraternità, e combattere uniti contro la natura matrigna. La Ginestra, l’umile fiore destinato a morire, che tuttavia consola col suo profumo il deserto, diviene l’immagine dell’anima nobile e grande, aperta all’amore degli uomini, e, insieme, il simbolo della poesia, espressione piena dell’umano, che illumina e consola la vita. Connessa a questi motivi è l’aspra polemica col <<secol superbo e sciocco>>, cioè con le tendenze ottimistiche del Romanticismo cattolico e liberale e la sua fede nell’ineluttabile progresso dell’umanità, fondata sulla concezione di un Dio che è ordine e provvidenza. Ad essa il Leopardi contrappone la fiducia illuministica nella ragione, il ripudio d’ogni mito in nome del vero, la sua filosofia  <<dolorosa ma vera>>, che <<procura agli uomini forti, la fiera compiacenza di veder strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano>>. Non si tratta di una posizione sterilmente individualistica o reazionaria: a certe posizioni superficialmente ottimistiche che furono proprie nel nostro Romanticismo, il Leopardi opponeva la necessità di indagare a fondo le problematicità della vita, di ritrovare una solidarietà autentica fra gli uomini, di comprendere che ogni vera fondazione di valori spirituali non può essere disgiunta da un sentimento austero e doloroso del dramma dell’esistenza.

La Ginestra

Nella Ginestra si svolgono più apertamente i motivi eroici del suo animo, le punte estreme della poetica leopardiana nata con Pensiero dominante e si attua l’estremo tentativo del Leopardi di portare in poesia tutta la sua più decisa esperienza e persuasione filosofica, morale, estetica, di fondere l’impegno poetico e l’annuncio di una buona e disillusa novella attraverso un’espressione lirica, in una rappresentazione poetica della propria personalità persuasa e annunciatrice e nel mito-parabola della <<ginestra>>. Non più eroi della storia illustre classica: Bruto minore o Saffo, ma un’entità naturale delicata e modesta, risoluta e antiretorica, che oppone alla violenza della natura il suo esistere senza superbia e senza servilismo come l’uomo ideale con cui il poeta si identifica in un autoritratto formidabile che non poteva più contenersi nell’iconografia sonettistica di alfieri e Foscolo. L’uomo cosciente della situazione umanata, un deserto flagellato dalla natura, ne vanamente orgoglioso ne vilmente implorante e invece pronto alla compassione ed alla solidarietà nel suo mondo tutto umano, illuminato da virtù umane cui è base essenziale l’estrema lucidità e la sincerità e la responsabilità non inquinata da nessuna forma di retorica e di autoinganno. Il poeta s’identifica con tutto l’uomo e con tutti i suoi impegni e perciò rifiuta ancor più nettamente le forme più tradizionalmente poetiche e le forme idilliache in cui si era espresso così altamente, ma secondo una prospettiva che non era quella più urgente e complessa che adesso lo sollecita e chiede tanto più chiaramente modi nuovi e se si vuole sconcertanti per chi abbia negli orecchi la musica idilliaca e dietro ad esso tanta altra musica della traduzione poetica petrarchesca-tassesca-metastasiana a cui il Leopardi idilliaco era stato più aperto ed attento. Eppure anche questa scura e cupa della Ginestra è musica autentica, potente ed audacissima, slanciata in lunghi e articolati impeti sinfonici che nascono al di la della melodia e del canto, e si strutturano in strofe sostenute da un scatto malinconico e virile che riesce a legar intimamente mosse energiche polemiche e sdegnose, rappresentazioni dello sfondo desolato e grandioso della campagna vesuviana, delle rovine di Pompei, di un cielo immenso e pauroso, ed esortazioni ed il messaggio dell’eroica e disillusa solidarietà umana, proprio in quanto esso è radicalmente un motivo lirico, il passo lirico della personalità persuasa, e non un astratto legame di motivi diversi e frammentari.  Unitario il tema e lo spirito, unitario e coerente il ritmo ed il tono di questa musica potente e severa, e lo stesso scatto perentorio ed energico tende le strofe,le singole immagini, le parole sempre più nude e insofferenti di velature di sogno, le cose che si presentano nel colore livido e vero di oggetti scabri ed essenziali:<<l’arida schiena del formidal monte  sterminator Vesévo, la qual null’altro allegra arbor né fiore>>, i campi cosparsi <<di ceneri infeconde>>. Come si presentano nude ed energiche  le mosse eroiche della personalità sdegnata contro il secol superbo e sciocco, bisognosa di un assoluta separazione di responsabilità dalle illusioni ottimistiche delle magnifiche sorti.  La stessa forza con cui prima aveva affermato la presenza e la superiorità assoluta del pensiero d’amore, poi l’invocazione della morte, poi l’incomparabilità fra l’immagine interna e la realtà di Aspasia.  Fondamentale unità e condizione lirica romantica che corrisponde ad un unico tono di rappresentazione – affermazione in cui i due termini sono inseparabili come meglio si può intendere con l’intera lettura di quel singolare capolavoro o almeno con quella delle sue strofe in cui il poeta dalla contemplazione del firmamento affascinata e paurosa passa alla constatazione della piccolezza dell’uomo e della sua vana superbia. Ma non si tratta, come si potrebbe astrattamente pensare, e a volte si è detta per pigra adesione alle formule più consuete, di un passaggio da un momento poetico contemplativo ad un polemico prosastico, che i due momenti vivono allo stesso slancio e si sviluppano con lo stesso ritmo, lo stesso accento, lo stesso linguaggio e la contemplazione severa e paurosa dell’infinità dei cieli non avrebbe senso poetico in quel approfondirsi e scandirsi  ossessivo se non vivesse liricamente come parte di un affermazione poetica, di un unico sentimento della sperduta esistenza e piccolezza della terra e dell’uomo in un infinito la cui contemplazione non può più risolversi in estasi idilliaca, ma in conclusione disperata ed eroica.  Ché se nella prima parte si può pensare come ad un singolare ritrono di temi da Infinito e da Canto notturno, qui in realtà c’è tutt’altro tono: la sicurezza di una persuasione,che non sfugge l’arido vero e non lo armonizza ed attenua nelle domande incantevoli del Canto notturno, ma lo affronta, se ne fa apostolo, ne rappresenta liricamente tutti gli aspetti e le conclusioni di messaggio del poeta, uomo tra gli uomini. Lo scherno e lo sdegno che anche in questo ultimo capolavoro si esprimono con una singolare forza di sintesi di pensiero, si cambiano – nelle parti positive della Ginestra – nella simpatia e nella vicinanza profonda con cui il Leopardi, al termine della sua lunga e sofferta esperienza vitale, rinsaldava o più fortemente i suoi vincoli di un uomo con umanità sobria, eroica, antiretorica, quale egli la raffigurava nel suo ultimo messaggio poetico. Il quale è, a chi ben lo intende, l’esito estremo e coerente di uno svolgimento di poesia e di pensiero, e di presenza totale di una personalità di cui non si capirebbe tutta la sua grandezza e tutto il significato storico se non si valutasse nel Leopardi non solo il grandissimo poeta dell’idillio, ma anche il poeta della persuasione eroica. Perché solo nel complesso sviluppo della sua esperienza e della sua personalità quale si consegnò negli ultimi canti, si può cogliere interamente, entro e anche al di là del puro valore poetico, tutta la grandezza del Leopardi, la sua decisiva presenza nella nostra tradizione moderna. Infatti – a parte ogni nostra personale e attuale consonanza o dissonanza rispetto alle posizioni ideologiche e spirituali del Leopardi e alle loro possibili riprese in altre situazioni storiche e culturali , e a parte ogni altra considerazione sull’importanza e il significato che le sue posizioni hanno nella storia del nostro stesso risorgimento – dovrà esser ben chiaro che la sua estrema energia persuasa, la sua assoluta sincerità, il suo rifiuto di ogni compromesso e di ogni via facile, il coraggio sofferto con cui egli condusse sino in fondo le conseguenze del suo pensiero e le tradusse in poesia, fanno di lui una delle presenze più alte, una delle forze più eccezionali nella nostra storia, una fonte perenne di stimolo estetico e una severa lezione umana, e, alla fine, per tutti, uno stimolo potente alla serietà della vita e della poesia, un profondo antidoto contro ogni tentazione edonistica e retorica, contro ogni conformismo e opportunismo ideologico e morale, contro ogni elusione, per debolezza o per calcolo, del nostro supremo dovere di esser risolutamente, strenuamente fedeli a noi stessi, al nostro mondo interiore, alle nostre persuasioni, ai nostri valori ideali: che è poi il senso più profondo che il Leopardi dava alla parola <<eroismo>>.

Leopardi: Lo Zibaldone

LO ZIBALDONE

Allo Zibaldone, uscito postumo postumo nel 1898, ad opera d’una commissione di studiosi presieduta da Giosuè Carducci, Il Leopardi affidò dal ’17 al ’32,  e  quasi giornalmente dal ’17 al ’27, note, appunti e trattazioni più ampie intorno a disparati argomenti: osservazioni linguistiche, filologica e di critica letteraria, meditazioni intorno all’estetica, o meglio, alla definizione di una propria poetica, osservazioni psicologiche e morali su se stesso e su gli altri, e, soprattutto, la sua <<filosofia>>, cioè le sue considerazioni lucide e appassionate sulla vita. Non mancano neppure immagini, versi isolati, spunti e argomenti di poesia, alcune dei quali ritornano nei Canti, come altre fantasie e pensieri saranno svolti nelle Operette morali e in altri scritti. Il termine usato come titolo vale, appunto, <<miscuglio>>, o anche <<prontuario>>, <<repertorio>>, <<raccolta poetica di scritti>>: un contenitore di spunti e appunti. Si potrebbe, per questo aspetto, definire lo Zibaldone il cantiere, l’operosa officina delle opere maggiori. Ma occorre aggiungere che esso presenta un notevolissimo interesse anche in se. Rispetto, ad esempio, alle opere in prosa del Leopardi, si può dire che, pur nella sua frammentarietà, questo libro sia più ricco, svolga una tematica più ampia. Se le Operette morali ci mostrano le conclusioni, in forma tra logica e fantastica, del pensiero leopardiano, lo Zibaldone ci fa assistere al suo travaglio formativo, quasi giorno per giorno, alle sue oscillazioni complesse e drammatiche. Diciamo giorno per giorno, perché molto spesso il Leopardi annota la data precisa dei singoli pensieri, sì che il libro diviene un diario culturale e spirituale che consente di seguire il suo continuo colloquio con se stesso. Rari sono nello Zibaldone i riferimenti a fatti biografici concreti, e anche in questi casi il poeta non racconta, ma fissa i particolari e le risonanze più profonde di un ricordo, d’una sensazione, c’un sentimento; un appunto, ma sintetico e pregnante e spogliato d’ogni elemento troppo immediatamente contingente, di un momento dell’esistere strappato al  nulla, un’intuizione poetica, e cioè creativa, della realtà ostile e incomprensibile.

Natura e civiltà: il corpo

Il dibattito sulla natura, anzi sulla contrapposizione di natura e ragione o natura e civiltà, occupa molte pagine dello Zibaldone, soprattutto fra il ’21 e il ’23, un’epoca in cui i suddetti termini, e in primo luogo quello di <<natura>>, conservano intatto un significato che, in seguito, sarà modificato. Natura e armonia, è perfetta conseguenza dell’essere, è un ordine cosmico ancora esistente nel pensiero di Leopardi, che giungerà a negarlo sempre più drasticamente a partire dal 1824. Per ora il Leopardi, sotto l’influsso del Rousseau e, in genere, del Decimo settecentesco, assegna alla natura un carattere quasi divino; anzi, in un suo <<sistema>> che venne elaborando nei primi anni, in cui tentava di conciliare le proprie aspettative sensistiche e il cristianesimo, la identifica con Dio. A essa si oppone la civiltà, che progressivamente privato l’uomo dalle illusioni i cui semi erano stati posti in lui dalla natura, ed è declino, distacco, per sempre, dalla felice comunione con le cose che caratterizzava agli Antichi: il loro vivere in piena armonia col mondo. Tutto questo ha precisi matrici settecentesche. Ma originale, è, in questo passo, l’appassionata difesa del corpo, resa evidentemente più urgente della stessa infelicità fisica che incomincia, in questi anni, a tormentare il poeta; ma anche importante culturalmente, come reazione a forme di esasperato spiritualismo, sia romantico sia connesso alla stessa pratica religiosa cattolica. Qui il Leopardi giunge a una polemica sopravvalutazione del corpo, e soprattutto alla rivendicazione dell’unità dell’uomo, di là delle banalizzanti distinzioni di anima e mera felicità, criticando drasticamente tutta un’impostazione educativa conformista.

La natura

Questo pensiero è come un condensato di tutto  il <<sistema>> al quale il Leopardi era pervenuto nel ’23; la natura come vita e felicità: ossia come pienezza e autenticità del vivere, sia nel complesso armonico dell’universo, sia nell’animo che nel corpo dell’uomo, nell’unità della persona. Ispirato dalla natura gli appare quindi quell’amor di sé che spinge insopprimibilmente alla ricerca d’una felicità totale; anzi, felicità, vita, natura vengono qui identificate, come del tutto corrispondenti all’amor di sé e al gusto delle sensazioni vive, di tutto ciò che aumenta la vitalità: dall’amore al sogno e desiderio dell’infinito alla poesia, che né è la manifestazione piena. Questo, sul piano filosofico, potrebbe essere chiamato monismo naturalistico: una concezione della realtà ridotta a un solo principio, la natura, che accoglie in sé le idee di felicità, vita, piacere, amor proprio, come equivalenti sul piano psicologico individuale. Esso si rovescerà in nichilismo, quando il Leopardi giungerà a concepire la sofferenza del vivere come ineluttabile. Sarà, cioè, il pensiero dell’irriducibilità a quel naturalismo di vecchiezza e morte, a mettere in una crisi irreparabile il sistema. Tuttavia l’idea iniziale di natura – vita – felicità  rimarrà come fonte perpetua di rimpianto e attesa; do poesia, soprattutto, intesa a recuperarla attraverso il ritorno ai momenti in cui essa fu vera: l’infanzia, l’adolescenza; meglio ancora: le illusioni allora concepite, e la stessa facoltà dell’illusione, come partecipazione a una vita bramata e inattingibile, costantemente delusa,e tuttavia affascinante.

L’infinito

Diciamo, con questa, inizio ad un programma di lettura sulla tematica dell’infinito, che coinvolse uno dei più intensi sforzi di pensiero del Leopardi e un tema di fondo della sua poesia. Si è preferito distinguere vari momenti della sua meditazione, i primi quattro passi sono concentrati negli anni fra il 1820 e il 1823, il quinto è posteriore al ’24, che è un anno cruciale, nel senso che vengono portate all0’estremo, dal poeta, certe formulazioni del suo pensiero, con, in certi casi, un capovolgimento di posizioni. Infinito è, in sostanza, un termine spiritualistico, rimesso in voga, anche sul piano della letteratura e dell’immaginario, del Romanticismo. Ed è, d’altra parte, un’ansia che il poeta ritrova in sé, una tensione o, come giunge a chiamarlo, uno <<spasimo>> dove esso coincide con lo slancio vitale dell’individuo, e degli uomini in genere. Il Leopardi cerca di coglierlo nella sua realtà psicologica, sottoponendolo alla propria gnoseologia(o dottrina della conoscenza) ispirata decisa mentente al Sensismo. L’infinito viene così identificato col principio del piacere o brama assoluta di felicità che è fondamentale nell’uomo come in ogni essere vivente. Nell’uomo questa brama non ha limiti né di durata né di estensione, ma urta contro gli ostacoli inequivocabili della vita: lo spazio, il tempo, la morte, le insormontabili leggi fisiche. Subentra allora l’immaginazione, che può concepire le cose che non sono e dare corpo all’esigenza e all’idea d’un piacere infinito. L’identificazione dell’infinito con la vitalità porta il leopardi, in questa fase del suo pensiero, a ritrovare una beatificante esperienza dell’infinito nella vita vicino alla natura, non ancora immiserita da un incivilimento fondato sul razionalismo; e cioè in quella degli antichi e, oggi, dei fanciulli. Questa lettura e la seguente sono tratte da un folto gruppo di pagine dedicate alla meditazione sull’infinito, datate, ala fine, <<12-13.luglio.1820>>.

Fenomenologia dell’infinito

Si è isolato questo passo dal precedente per l’allusione chiara alle <situazione romantiche>>, fra le quali va collocata quella dell’idillio L’infinito, dove pure una veduta ristretta, mentre blocca l’ulteriore avanzare della vista, dà ala all’immaginazione, col trionfo del fantastico sul reale. Due sono qui le immagini tipiche dell’infinito: la veduta ristretta che s’è vista e tutto ciò che suscita vastità e molteplicità di sensazioni: cioè il limite da cui erompe dialetticamente la volontà dell’illimitato e la vitalità pura che gode della varietà e intensità del proprio manifestarsi. Si può parlare d’una fenomenologia di fondo dell’infinito, nel senso che si tratta di due disposizioni psicologiche cui vengono a fare a capo varie manifestazioni di esso. Ma come nell’idillio,e come nel passo precedente, è la mente che <<finge>>, o crea, l’infinito, e questo è, di per sé privo di esistenza oggettiva.

Infinito e indefinito

E’ uno sviluppo coerente della meditazione leopardiana, attenta a togliere all’infinito ogni carattere ontologico, cioè a privarlo d’ogni realtà fuori della mente che lo concepisce. L’intelletto, la capacità d’amare, la fantasia non possono concepire un infinito assoluto, ma solo relativo, che converrà chiamare <<indefinito>>, in quanto dà all’anima un’idea soltanto approssimativa e inadeguata d’un infinito che, abbiamo visto, non esistere fuori di lei, ma è soltanto un ente immaginario, <<chimerico>>. E tuttavia si veda quella scoperta finale: l’infinito – indefinito lascia insoddisfatta l’anima, che si pente di  non averlo concepito e vedono tutto intero; un senso di inappagamento, di occasione non afferrata e non vissuta che sfiora, nonostante la fermezza del sensismo leopardiano, una situazione di nostalgia romantica.

Immagini dell’infinito

Giunti a questo punto, il titolo pare appropriato al più, si potrebbe correggere infinito con indefinito: i due termini, però, su un piano, diciamo così, filosofico e razionale, si equivalgono, per Leopardi. Ma, nel primo dei tre passi, vi sono già dei termini – spia: il <perdersi>>, l’<<estasi>>, che alludono, soprattutto il secondo, a una dimensione diversa del reale, che rischia di donare all’infinito la consistenza studiosamente evitata e negata, come s’è finora visto dal Leopardi. In effetti, e ce lo dicono gli altri due passi, l’infinito è il <<diverso>>, o meglio, lo spazio della poesia. L’immagine <<vaga, indistinta, incompleta>>, che è poi, a ben vedere, quella evocata dall’idillio. L’infinito qui citato, diviene, dunque, una dimensione nuova della realtà, assurda, inconcepibile, eppure, in qualche modo vera. E’, del resto, sintomatico che, accanto agli esempi di un indefinito tratti dalla realtà, il Leopardi possa qui citare proprio una sua poesia, come cosa vera, oggetto concreto come quelli della natura.

L’infinito e il nulla

Questa nuova e per molti aspetti conclusiva meditazione sull’infinito viene dopo la scoperta dell’<<orribile mistero dell’esistenza>>; e non si tratta tanto di una posizione nuova radicalmente diversa, quanto piuttosto d’un atteggiamento morale diverso di fronte alla fin dall’inizio asserita inesistenza dell’infinito. Il Leopardi qui lo rinnega con una sorta di gelida furia demistificatoria; non solo, ma lo rovescia nel nulla, lo sente, cioè, come un’assenza, come una contraddizione insanabile on la realtà vera e unica, che è quella del limite. L’infinito è dunque un idea, un sogno, forse qualcosa di impossibile. Tuttavia proprio la sua totale assimilazione al nulla rivela una scelta, un’iniziativa perentoria del’animo. A ben vedere, la poesia leopardiana non canta che delle assenze: la felicità inattingibile, la giovinezza perduta, la vita come angoscia dell’invecchiare e del morire, l’amore sognato e irraggiungibile, la bellezza d’una natura che è soltanto, in realtà, un universale meccanicismo che non si cura dell’uomo, le illusioni perdute, l’infinito come puro ma vano slancio verso la felicità. Eppure queste cose diventano vive, nella poesie che scopre come unica dimensione reale del cuore. La ferma asserzione del nulla, in cui precipita anche quello dell’infinito che abbiamo visto fin dall’inizio coincidere con l’ansia di felicità; del nulla come finalità unica d’una vita inesplicabile, diviene una sorta di protesta totale, che si riscatta nella poesia  come creazione, o mezzo per far sussistere le esigenze profonde dell’animo, una sua vita sognata e tuttavia, come le illusioni, unica realtà, in quanto unico modo, per l’uomo, di attingere, in parte, l’impossibile felicità. Il nulla, insomma, l’assenza diventano anch’essi in qualche modo presenza viva nello <<spasimo d’infinito>> della mente e del cuore.

La <<ricordanza>>

La rimembranza e l’indefinito sono spesso indicati, nello Zibaldone, come la sorgente prima della poesia, e, a ben guardare, c’è fra di essi un’intima correlazione. La memoria, infatti, è memoria d’infanzia, d’un primo contatto con le cose, o memoria di giovinezza: d’un tempo, comunque, d’illusioni vaste e indefinite. Poesia significa dunque ritrovare di là della delusione del presente lo slancio generoso d’un tempo, evocare la dolcezza di quel passato sempre perduto; cogliere la realtà che appariva all’uomo quando era ancora animata dalla sua attesa, dalla sua speranza, che costituiscono, a ben vedere, il vago, l’indefinito: la vita ancora aperta all’illusione.

Dignità dell’uomo

E’ uno dei motivi fondamentali della meditazione leopardiana. Questa affermazione della dignità dell’uomo. Lo spunto è tratto, con ogni probabilità, da Pascal, il più grande moralista cristiano francese del seicento, ma spogliato della sua significazione religiosa. L’uomo del Leopardi è immerso nel cosmo sterminato e incomprensibile e non sa trovare un perché né della vita di esso né della sua; e tuttavia, pur nella sua angoscia di creatura effimera, avverte in sé una nobiltà che s’innalza sugli altri esseri e che consiste soprattutto nella sua capacità di abbracciare con la sua mente l’universo.

L’<<orribile mistero>> dell’esistenza

E’ una svolta decisiva del pensiero del Leopardi, questa del 1824, poco dopo la stesura del Dialogo della natura e di un islandese, citato come un approdo conclusivo. La contraddizione dell’essere con se stesso, dato che all’uomo è concessa un’esistenza priva di quella felicità che ne sarebbe non soltanto la sola giustificazione, ma anche la condizione elementare e necessaria: questo è il <<mistero>>, l’assurdo, o l’incoerenza suprema, inscritta peraltro stabilmente nella realtà, che la ragione rifiuta come cosa contraria totalmente a se stessa, al suo principio fondamentale, che è quello di non contraddizione. L’infelicità dei viventi, che il leopardi vede come cosa totalmente certa da non aver bisogno di dimostrazione, è mostruosamente inesplicabile, e tuttavia vera, ineliminabile. Il <<mistero orribile>>, è, dunque, la totale incongruenza dell’essere, che sconvolge persino le leggi su cui si struttura il pensiero. La meditazione filosofica del poeta non saprà andare oltre la scoperta di questa inesplicabilità dell’esistenza dell’io e dell’universo. Si arena qui lo sforzo di pensiero che aveva avuto svolgimenti ampi fra il ’21 e il ’23; dopo questa scoperta non restano che il coraggio, e l’angoscia, della testimonianza.

 

 

L’infelicità del mondo

Questi due pensieri appartengono al momento conclusivo della meditazione leopardiana. In entrambi la natura non è più madre benefica delle illusioni, come all’inizio dello Zibaldone, ma nemica d’ogni essere vivente, principio assurdo e crudele dell’universo. Il primo passo è come un poemetto in prosa, dominato da un senso sgomento del male, dell’universale infelicità, che si esprime nel ritmo incalzante dei periodi brevi, martellati, inesorabili, anche se con qualche compiacimento stilistico troppo scoperto. Ma l’ultimo periodo ha una vastità sconsolata, un senso d’irreparabile sofferenza. Il secondo passo mostra invece un’incisività e una concisione lucide, taglienti, in cui avverti un contenuto ma intenso spirito di ribellione, caratteristico del Leopardi degli ultimi canti. Posto verso la fine dello Zibaldone, ne riassume le lunghe, complesse e dibattute meditazioni sulla natura, con un tono di certezza definitiva.

Amore, illusioni, Poesia

Che il così detto pessimismo del Leopardi non sia una sterile negazione, ma celi in se un’esausta brama di vita, si può vedere dai pensieri che seguono. Amore, illusioni, Poesia sono amati dal poeta e sentiti come felicità vera, perché coincidono con una pienezza totale, anche se momentanea, della nostra vita: sono, insomma, espressione dell’ansia d’infinito che è in noi. Sintomatico, in tal senso, l’ultimo dei tre pensieri, sia perché esso viene dopo le più risolute negazioni leopardiani d’un possibile significato della natura e della vita, sia perché contiene l’unica affermazione di felicità attuale espressa dal poeta.

Filosofia e fraternità umana

La concezione leopardiana della vita non si chiuse mai in un pessimismo rinunciatario, ma fu sempre pervasa dell’esigenza di non cedere al destino, di affermare contro di esso la dignità dell’uomo, condannato, senza sua colpa, al dolore. Questo pessimismo virile ed eroico approda, soprattutto negli ultimi canti, ad un invito alla solidarietà fraterna degli uomini, che devono essere uniti contro la natura matrigna e contrapporre alla sua legge cieca e meccanica il loro mondo di liberi affetti e nobiltà spirituale.

La civilizzazione dei bruti

E’, come avvertono le date di due pensieri contigui, una meditazione, tra razionale e fantastica, balenata nella settimana santa del 1827, da non sovraccaricare, come si fece un tempo, di precise responsabilità filosofiche, ma da considerare in ambito letterario e fantastico. La lettera a un giovane del 20° secolo qui citata è uno dei progetti letterari vagheggiati e non condotti a termine dal leopardi;una specie, forse, di <<operetta morale>>, di costruzione, dunque, allegorica. Ma conta soprattutto il riscontrare come, alla vigilia del risorgere in lui della poesia dopo un lungo silenzio, si facesse strada nel Leopardi questo anticipo della Ginestra: la volontà d’una lotta degli uomini contro la natura, degli esseri intelligenti contro la dinamica brutale della materia, con le sue leggi indifferenti al dolore e alla costante vanificazione della persona.

Ultima pagina dello <<Zibaldone>>

Lo Zibaldone è il libro re catanese, il confidente del poeta nella sua solitudine nel <<natio borgo selvaggio>> amato  e vilipeso.  L’uscita da Recanati ne segna, di fatto, la fine. Le annotazioni degli anni ’30, ’31, ’32 occupano 2 delle 2594 pagine dell’edizione critica attuale di esso, contengono, per di più della metà, notazioni linguistiche greche e latine. Si riportano qui le altre, di carattere <<filosofico>> o mediativo che concludono il libro, fra la fine di maggio e la fine di dicembre 1832. I pensieri qui espressi non sono nuovi, ma derivano, oltre che da altre pagine di esso, dai Pensieri e dal Dialogo di Tristano e di un amico, due testi che il Leopardi considerava fondamentali, anzi, risolutivi della sua lunga meditazione. Per questo sembra di poter vedere qui una consapevole volontà di conclusione dell’opera, condensata in alcuni aforismi gelidi che riassumono tutta un’esperienza di pensiero e di vita. La realtà in generale, la propria idea del mondo e della società, la psicologia e il destino dell’uomo, e persino l’opposizione natura / civiltà con cui lo Zibaldone si era aperto sono gli argomenti di queste note sintetiche, dove si avverte un impeto satirico come raggelato, una testimonianza amara, fra sarcastica e polemica. Il libro degli sparsi appunti diviene ancora una volta il diario intimo di un’esistenza: di ideali e aspettazioni, di illusioni e delusioni, d’un lavoro incessante di chiarificazione intellettuale e di stile, di dibattito con se stesso e con la vita da parte del poeta, impegnato in una ricerca morale di giustificazione, sempre delusa e mai rassegnata.