Analisi, parafrasi e commento di “Arsenio” di Eugenio Montale. (da Ossi di Seppia)

I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

E’ il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…

Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.

Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.

PARAFRASI
1-5. turbini: i turbini di vento preannunciano la tempesta che sta per abbattersi sulla città marina, i cavalli incappucciati, quelli delle carrozze pubbliche, che stazionano presso gli alberghi. Hanno la testa coperta da cappucci impermeabili. Annusano la terra: come sempre quando presentano la tempesta. Nota il senso di sospensione e di attesa di questo paesaggio, e anche la contrapposizione fra il turbine che s’addensa nell’aria, preannunciando la tempesta, e i vetri luccicanti degli alberghi. Da un lato hai le cieche forze cosmiche, dall’altro il povero mondo umano, colto nella torpida esistenza della città balneare.
6-8. tu: Arsenio, cioè il poeta. Frequente, negli ossi di seppia, il dialogo del M. con se stesso. Piovorno: l’aggettivo indica il cielo pieno di nuvole acquose. Acceso: illuminato dai lampi.
8-11. in cui…. Castagnette: la serie dei tuoni, a intervalli, simili a schiocchi di nacchere, sembra sconvolgere la trama delle ore uguali e monotone del pomeriggio.
12. e’…seguilo: gli scoppi del tuono sembrano segnare un’orbita diversa del tempo, un diverso cammino delle ore, strappandole al loro corso monotono, inerte. Per questo il poeta esorta Arsenio a seguire questa voce nuova, che forse lo condurrà verso una realtà meno assurda di quella usuale.
13-14. “Discendi verso l’orizzonte che è sovrastato da un plumbea tromba marina, alta sui gorghi del mare”.
15-17. salso… nubi: nembo salmastro d’acqua marina che l’elemento ribelle ha sollevato fino alle nubi. Il cielo e il mare si confondono, la natura appare nella sua violenza selvaggia.
17-19. fa…alghe: fa che il tuo passo scricchioli sulla ghiaia e che il tuo piede s’inciampi in un viluppo d’alghe, facendoti precipitare fra le onde. La discesa d’Arsenio al mare è pervasa da un desiderio d’annientamento: è una fuga dalla vita assurda verso la differenza del non essere.
19-23. “e’ forse quell’istante, da tempo atteso, che ti può liberare dalla pena di portare a compimento il tuo viaggio umano, la tua vita”. Anello… immobilità: la vita è l’anello d’una catena fatale che ci lega all’esistenza cosmica come a un destino, uno scorrere del tempo nel quale restiamo immobili attendendo la morte. E la consapevolezza di questa immobilità ci procura la vertigine del delirio, la brama di precipitare nell’abisso del nulla.
24-33. e’ un attimo di tregua. Il poeta rivolge un ultimo sguardo alla vita e alle sue suggestioni, alle sue oasi di pace nelle quali sembra balneare la luce d’una speranza; ma, nel contempo, scopre l’illusorietà di tutto questo. Donde, all’inizio della strofa seguente, la ripresa dell’esortazione all’annientamento.
24-27. il getto tremulo: lo zampillare tremulo dei violini dell’orchestrina, povero tentativo di esprimere una gioia che l’impeto rovinoso dei tuoni sommerge.
27-30. la tempesta…. Prossima:la tempesta può essere dolce quando la stella della canicola sgorga bianca nell’azzurro cielo estivo fra le nubi non ancora addensate e la sua luce fa pensare ancora lontana la sera, che invece è vicina.
30-33. se…. Silenzioso:se anche il fulmine incide il cielo della sera, può allora essere visto come un albero d’oro, entro la luce delle nuvole che si tingono di rosa. E allora lo scoppio lontano di esso può confondersi col rullo del tamburo delle orchestre tzigane che suonano negli hotels.
34-39. discendi…acetilene: riprende la discesa di Arsenio verso il mare, in mezzo alla tenebra della tempesta imminente che muta il meriggio in una notte cupa, interrotta solo dai globi delle lampade di carta accesi lungo il mare e dondolanti, mentre al largo cielo e mare sono un’ombra sola, interrotta dai lumi ad acetilene delle barche da pesca.
39-44. è l’esplodere della tempesta; l’acqua si riversa violenta dal cielo.ti sciaborda: “verbo tipicamente montaliano, che qui sta indicare il liquido disfacimento delle cose”. Le tende molli: quelli degli chalets. le lanterne di carta, espressioni d’una gioia vacua, sono disfatte dalla forza cieca della natura.
45-59. mentre Arsenio si protende verso la tempesta e il gorgo dell’annullamento, viene riafferrato dal desiderio della vita, ritorna nel mondo umano. Ma è un precipitare in un altro gorgo, quello dell’esistenza quotidiana, assurda e senza luce, che non è un vivere, ma un continuo morire in un’angosciosa solitudine.
45-46. sperso…. Grondanti: mentre sei là disperso, fra le sedie di vimini e le stuoie grondanti di uno chalet. La proposizione reggente è:la tesa…. Volge.
46-50. giunco…. Soffocati: come un giunco che trascina con sé le sue radici viscide, non mai del tutto staccate dall’esistenza, e mentre, nello stesso tempo, tremi di vita, continui, cioè, ad essere disperatamente attaccato alla vita e ti protendi verso il nulla.
50-54. la tesa…. Morti: mentre Arsenio è perplesso fra la vita e la morte, lo riafferra l’onda del destino, che da sempre lo ha in sua balia; lo riprende la realtà della vita, ma per configgerlo ancora fra le sue vacue parvenze e, sostanzialmente, nella gelida solitudine che è propria della massa degli uomini, “i nati-morti”, conficcati tutti senza speranza nel ghiaccio dell’esistenza assurda.
55-59. e se….astri. a tratti un gesto, una parola di solidarietà umana ci sfiorano, ci fanno intravedere la possibilità di uscire dalla solitudine, di poter comunicare con gli altri, e allora la catena del tempo che ci travolge inesorabile nel vuoto sembra dissolversi. Ma è un attimo: quel segno d’una vita nuova è subito strozzato. Il vento lo disperde fra gli spazi interplanetari, nel vuoto dell’universo, insieme con le ceneri degli astri defunti.

Breve Commento

Arsenio esprime il pessimismo storico e cosmico di Montale. L’uomo vi appare come una figura senza volto, non un personaggio, immerso da un lato in una civiltà assurda e livellatrice, dall’altro in un universo altrettanto privo di significato, mosso da un destino che, come una ruota fatale, trascina ogni cosa, con una forza cieca, verso la distruzione. A tratti(vv. 55-59) sembra di poter uscire da questo ingranaggio, di poter approdare a una verità più autentica, a un colloquio con l’altro dal quale possa emergere un nuovo mondo umano, riscattato dal nulla. Ma è un illusione breve; ognuno è chiuso nella propria solitudine, ombra, non persona, e la sua esistenza precipita negli spazi sterminati e muti del cosmo come le ceneri dei mondi spenti. La tempesta che piomba sulla piccola città, fra gli emblemi sterili d’una gioia mentita, l’avventura d’Arsenio, cioè la sua discesa verso il mare sul quale incombe la tromba marina fanno balenare per un istante la possibilità di un altro ordine di eventi, non più soggetti alla necessità ferrea, sembrano infatti, configurare una diversa “orbita” per il cammino terreno dell’uomo, un suo ritorno alla forza vitale della natura, ritrovata intatta nel suo scatenarsi nella tempesta, fuori della ferra catena del destino o della necessità che isterilisce di continuo la vita umana e quella cosmica; e allora l’inciampare nel viluppo delle alghe potrebbe significare l’uscita dalla catena delle ore uguali e senza scopo, da quell’andare in cui il delirio della passione cela la sostanziale immobilità di un’esistenza sempre frustrata. La tempesta diviene, a questo punto, un simbolo ambiguo. Da un lato appare come segno e promessa d’un oltremondo, d’una liberazione della vita in autentica che travolge l’uomo e le cose; ma poi essa si mescola alla vicenda fatua della città balneare, ai timpani degli tzigani; e la sua stessa violenza, promessa di distruzione e di metamorfosi, diventa emblema della distruzione di sempre, della vanificazione continua dell’esistenza. L’onda che riafferra Arsenio lo riconduce fra gli aspetti assurdi e inconsistenti della vita, fondata sul vuoto: fra gli uomini che appaiono come “una ghiacciata moltitudine di morti”, immersi in un vivere, cioè privo di ragione e giustificazione. La lirica (1927) entrò nella seconda edizione degli Ossi(1928).

Ossi di seppia: poetica e tematiche. (raccolta di poesie di Eugenio Montale)

La raccolta fu pubblicata nel 1925 da Pietro Gobetti, alle cui riviste Montale collaborava, condividendone l’impegno etico – politico di fondazione d’una cultura non provinciale, moderna e democratica. In effetti il libro, che è stato definito un “romanzo filosofico”, appare coinvolto nel dibattito ideologico del tempo, da Schopenhauer a Bergson al contingentismo di Boutroux. Ma è una filosofia tutta risolta in immagini che manifestano uno scavo personale del poeta, un complesso di faticati approdi conoscitivi. Montale accoglie il tema crepuscolare e palazzeschiano d’una poesia “dissacrata”, costretta a piegare sull’umile, sul quotidiano per ritrovare una possibilità di sopravvivenza in un modo alienato e ostile. A questo tema congiunge la superstite nostalgia d’una fusione con la natura, presentita nell’adolescenza, la delusione e il rimpianto della perduta armonia con le cose, e l’idea della poesia come superstite dignità. D’altra parte la coscienza della condizione umana presente, che diviene per lui quella di sempre, lo porta ad ammettere l’impossibilità per la poesia di offrire un alto messaggio di vita; donde la necessità che essa avverte di ripiegare su una testimonianza senza illusioni; anche se balena nel libro qualche momento fugace di speranza, come in Riviere, di sognata possibilità di ristabilire il colloquio perduto con la natura – vita. Il libro ha così una sua dialettica interna. Da un lato vi è la confessione d’impotenza, dell’incapacità del poeta di cogliere e rappresentare la vita nella sua autenticità: e allora lo scacco conoscitivo si fonde con quello espressivo, creando il mito d’un “ritmo stento” d’una poesia sempre inadeguata all’oggetto: di parole “petrose” che colgono la delusione e l’aspro tormento del vivere e oscillano fra volontà di canto e prosaicità. Dall’altro vi sono i brevi momenti di grazia, in cui la natura appare vicina a svelare un significato e gli oggetti si delineano nitidi, alludendo, nel contempo, alla possibile identificazione armonica fra uomo e mondo. Più in generale si può dire che la scoperta inautenticità dell’esistere è incentivo alla ricerca d’un riscatto poetico. Questo, tuttavia, permane pur sempre difficile ed episodico, richiede prima il passaggio per il cammino impervio della negazione, il riconoscimento della crisi etico – conoscitiva dell’uomo moderno. Prevale, in sostanza, nel libro, la coscienza della realtà come insondabile e incomprensibile, assimilabile, per questo, a una sorta di “solido nulla” leopardiano. Gli eventi e i gesti umani si rivelano dominati dal caso, la natura priva d’ogni razionalità, l’uomo sperduto nel caos della contingenza. In questa visione pessimistica si volle, più tardi vedere una reazione all’atmosfera oppressiva del fascismo. Ma tale motivazione non è convincente: la visione tragica monta liana è anteriore storicamente, e va messa in relazione, se mai, con una crisi ideologica e storica non solo italiana: Con la vicenda, cioè, di guerre e violenze, di civiltà alienata e alienante denunciata, allora, da altri scrittori, a cominciare da T.S. Eliot, la cui Terra desolata uscì nel ’22. Come attestano i componimenti usciti dopo la prima edizione degli Ossi, e compresi poi nella seconda (1928), I morti, Delta, Incontro, Vento e bandiere, Fuscello teso dal muro e Arsenio(che è del 1927), il pessimismo aumenta nella seconda edizione del libro, sovvertendo il primo finale, la lirica Riviere, in cui poteva balenare una speranza di riscatto, e rendendo, di fatto, dominante il tema della scoperta del “male del vivere”, della vita come seguito di atti privi di significato. La testimonianza poetica diviene sempre più l’unico tentativo di salvezza per l’uomo, che non riesce tuttavia a infrangere la cadenza ferrea d’un destino di vanificazione. Eppure proprio su questo sfondo nichilistico, fra il vuoto sempre incombente del non essere o dell’assenza e una sognata identificazione con a natura che significherebbe anch’essa una dissolvenza dell’individuo, gli oggetti della poesia monta liana acquistano una singolare intensità. Si è più volte parlato di paesaggi aridi e scabri degli Ossi, mettendoli in relazione col paesaggio ligure, sia con quello reale, sia con quello cantato dai poeti liguri coevi. Ma converrà piuttosto parlare di un originale creazione monta liana, d’un paesaggio che riflette e incarna una visione del mondo, d’una terra desolata e d’un dramma esistenziale che presenta analogie con la coeva cultura letteraria europea.

STRUTTURA

Ossi di seppia comprende ventitré liriche, raccolte in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Alcuni critici (ad esempio Mengaldo) hanno notato, nella struttura delle raccolte montaliane, un alternarsi di serie di liriche brevi e di testi più diffusi. Questo negli Ossi vale relativamente: più che di un susseguirsi di forme definite, si potrebbe parlare di un alternarsi musicale di movimenti più distesi e meditativi (come l'”adagio” di una sonata) e di sprazzi fulminei di immagini simboliche (come il “presto” o lo “scherzo”).

Metrica di Ossi di Seppia

Il tempo in cui furono scritti gli Ossi di seppia fu quello di futuristi e vociani, con la rottura del ritmo, della forma, della stessa struttura sintattica nei suoi componenti elementari. L’apparente distacco di Montale dagli eventi esterni – apparente in quanto egli seppe fare i conti con essi, trasformandoli alla luce delle proprie esigenze – si traduce in questa raccolta in una consapevole e misurata ricostruzione del verso nella sua forma “classica”. Montale sembra dirci che una poetica che abbia come oggetto la disgregazione del senso e della vita può servirsi con più utilità, per raggiungere i suoi scopi, di una forma chiara e semplice nella sua rigorosità costruttiva. Si può notare in questa preferenza per lo stile classico del verso un parallelo con l’atteggiamento dannunziano, che va tuttavia distinto: in D’Annunzio il recupero del passato è funzionale ad un “messaggio” ideologico, ad un “programma” poetico che intende agganciare un’idea di cultura già presente nella memoria storica con il suo bagaglio di simboli e significati. Nel nostro, il classico è uno strumento linguistico-formale, al contrario dello sperimentalismo delle avanguardie. Si è infatti talvolta paragonata la struttura ritmica degli Ossi di seppia a quella delle Myricae di Pascoli.
La semplice classicità di Montale è arricchita dall’uso della musicalità della lingua: rime, assonanze e consonanze, nonché l’uso raffinato della sintassi poetica, e altri effetti sonori.

Stile e linguaggio

Da Wikipedia

Nella lingua di Montale ritroviamo musica e pittura, e in buona misura la lingua di Dante, di D’Annunzio e di Pascoli. Il “dantismo” di Montale è generalmente considerato un fenomeno unico nel Novecento italiano per intensità e attualizzazione delle situazioni: la lingua pietrosa e aspra e il fascino della condizione umana “infernali” hanno trovato in Montale una eco di grande forza. Come per le scelte metriche della raccolta, anche le citazioni non hanno lo scopo di istituire un collegamento con un passato idealizzato – quasi una sorta di passaggio di testimone tra poeti “incoronati” -, ma quello puramente strumentale di arricchire la lingua di apporti espressivi, anche se la citazione di un classico trascina sempre con sé i risvolti profondi del suo mondo di riferimento (Meriggiare).
Invece la lezione di Pascoli, perfettamente assorbita da Montale, fu la scelta di una terminologia esatta e specifica, soprattutto per gli elementi della flora e della fauna: la scientificità di una lingua trasformata in lente di ingrandimento per tutto ciò che è piccolo e comune, così comune da non avere nome (almeno in letteratura); il senso di una natura ostile e minacciosa; un certo “impressionismo interiore” (Mengaldo) caratterizzato dall’associazione quasi sinestesica tra eventi naturali e situazioni emotive (Mediterraneo, Scendendo qualche volta). A D’Annunzio, infine, va ricondotta – come già detto – la ricerca metrico-ritmica, e il gusto per l’invenzione delle parole, che si può far risalire al rapporto privilegiato con la natura, in alcuni momenti deformata allo sguardo del poeta dalla sua stessa forza vitale – non più positiva come in Alcyone ma negativa.
Esiste un nesso tra l'”aura” fenomenologica della poetica degli Ossi di seppia e le scelte linguistiche del loro autore; seguendo la lezione critica di Pier Vincenzo Mengaldo[2], così si individua:

l’uso di parole rare non per la loro forma, ma per il loro ricorrere una volta sola in tutta la raccolta – in tal senso l’unicità oggettiva di ogni cosa è definitivamente marcata da un suo segno linguistico irripetibile;
la scelta di singole parole “letterarie” (soprattutto dantesche e dannunziane) private di un contesto riconoscibile, tale che il lettore possa subito vedere in trasparenza la loro origine, trasforma anch’esse in elementi espressionistici utili a marcare la rarità delle cose, più che delle parole;
L’uso di una terminologia precisa impedisce il crearsi di qualsiasi alone simbolico attorno alle parole: più che evocare qualcos’altro, la parola di Montale “rimbalza” sul lettore come una domanda che non ha ricevuto risposta.

Il soggettivismo linguistico di Montale (che consiste in una assoluta libertà di scelta nel repertorio lessicale – dalla lingua storica a quella scientifica) diviene così strumento per denotare le cose di una forte oggettività.

Analisi e commento di “potessi almeno costringere” di Eugenio Montale (da Ossi di seppia)

Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento;
dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare:
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura.
Non ho che queste parole
che come donne pubblicate
s’offrono a chi le richiede;
non ho che queste frasi stancate
che potranno rubarmi anche domani
gli studenti canaglie in versi veri.
Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
azzurra l’ombra nuova.
M’abbandonano a prova i miei pensieri.
Sensi non ho; né senso. Non ho limite

PARAFRASI

1-5. ritmo stento: ritmo stentato. Vaneggiamento: moto e voce senza apparente direzione e fine. Balbo: balbettante.
6-10. il poeta sognava un tempo di rubare al mare le sue parole, di giungere, cioè, a un linguaggio nuovo, in cui natura e arte coincidessero. Queste avrebbero dovuto aiutarlo a esprimere la sua malinconia di fanciullo invecchiato che non avrebbe mai dovuto pensare, ma avrebbe dovuto mantenere l’antica indifferenziazione fra sé e le cose. Nell’immagine del fanciullo invecchiato c’è ancora un’eco vagamente crepuscolare.
11-14. lettere fruste: parole logorate dall’uso. E… letteratura: la parola, “amore”, il cui pieno significato è oscuro,e che, non appena pronunciata, si banalizza, perde la sua intensità e complessità, diventa letteratura “lamentosa”, perché accompagnata, nella poesia fino a oggi, da sospiri e lamentazioni. L’uso letterario ha, cioè, privato la parola della sua significazione vera.
16. pubblicate: di malaffare; ma c’è forse un giuoco di parole; si tratta di termini ormai divulgati al punto di essere ormai vieti.
18-20. frasi stancate: per la loro usualità, che subito potranno essere saccheggiati da poeti mediocri che si esprimono in versi legittimati dalla tradizione, e dunque veri nel senso di regolari.
21-24. il rombo del mare, la sua voce inconfondibile, che è anche perenne rivelazione intuitiva, dissolve pensieri e lamenti del poeta, che, per un attimo, riesce ad identificarsi con esso, perdendo il senso doloroso del limite.

Breve commento

Situato al penultimo posto della sillage Mediterraneo, questo testo ne esprime, nella forma più compiuta, la poetica, che è poi anche quella generale degli Ossi di seppia: la ricerca – avvertita come impossibile e tuttavia perseguita con uno slancio che ha sapore di nostalgia – d’una parola autentica, di un’espressione assoluta, totale, capace di attingere l’essenza inconoscibile della vita. “Volevo – scrisse anni dopo Montale – che la mia parola fosse più aderente di quella di altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo, un’esplosione, la fine del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E’ la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica”. Si potrebbe considerare la lirica come la drammatizzazione di questa poetica. Montale vorrebbe – e non può – creare una lingua e uno stile capace di cogliere l’essenza delle cose, di quel mare che è espressione totale e profonda della vita. O meglio, dato che, a suo avviso, le cose rifiuterebbero di per sé un nome, un principio di individuazione fuori del tutto di cui non sono che manifestazione o parvenza esterna, vorrebbe cogliere il messaggio segreto nascosto dal “rombo” del mare; vorrebbe parole “salmastre”, fatte della sostanza del mare, in cui natura e arte fossero perfettamente fuse. La cosa importante, a questo punto, è che egli evita le seduzioni della letteratura, per usare un lessico vicino al quotidiano, con una ricerca di elementarità che rispecchi un’adesione alle cose, nell’attesa umile d’una rivelazione più intima. Lo stile spoglio e dissonante corrisponde all’oggetto: alla ricerca di un’armonia forse impossibile.

Eugenio Montale “Cigola la carrucola del pozzo”: parafrasi e commento. (da Ossi di Seppia)

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

PARAFRASI

2. vi…. Fonde: si fonde con la luce (come il girasole in una lirica già riportata)
4. puro cerchio: il cerchio del secchio che delimita l’acqua.
5. accosto…. Labbri: l’impulso è quello verso una totale identificazione.
7. ad… altro: non cioè, al poeta, ma ad altra persona, che è, in sostanza, un suo io passato, defunto, col è ormai impossibile comunicare.
9-10. altro:cupo, senza luce, come il gorgo del passato. Visione: è vocativo. Una distanza: non occorre definirla quantitativamente: basta evocare l’estraneità del passato.

Breve commento al testo

Un ricordo del passato giunge improvviso dalla profondità della coscienza; ma quando il poeta tenta di ritrovarlo e ritrovarsi in esso, il passato si deforma, appare alienato in uno stacco incolmabile. Anche in quest’osso si avverte la scoperta dell’impossibilità di consistere dell’individualità, travolta dal tempo e dalla vita, invano anelante a ritrovare nella memoria una propria storia, e dunque una propria unità di persona

Eugenio Montale la “Vasca”: parafrasi e commento(da Ossi di Seppia)

Passò sul tremulo vetro
un riso di belladonna fiorita,
di tra le rame urgevano le nuvole,
dal fondo ne riassommava
la vista fioccosa e sbiadita.
Alcuno di noi tirò un ciottolo
che ruppe la tesa lucente:
le molli parvenze s’infransero.

Ma ecco, c’è altro che striscia
A fior della spera rifatta lisca:
di erompere non ha virtù,
vuol vivere e non sa come;
se lo guardi si stacca, torna in giù:
è nato e morto, e non ha avuto un nome.

PARAFRASI

1-5. tremulo vetro:la superficie tremula dell’acqua nella vasca. Un riso: potrebbe essere lo schiudersi dei fiori a una certa ora del mattino. Le rame: i rami della bella donna. Urgevano: dal fondo della vasca si riflette, come in uno specchio, l’aspetto delle nubi che sono come fiocchi sbiaditi.
7-8. la tesa: la superficie dell’acqua. Le molli parvenze: i morbidi contorni degli oggetti prima rispecchiati, che il sasso infrange.
9-13. altro: un’altra immagine, ma ancora baluginante. Per questo dice striscia, senza la forza di divenire immagine definita. L’immagine sfuocata, incapace di consistere, acquista una significazione simbolica: è il non essere di tante vite. Se: acquista il senso di “non appena”.

Breve commento

il procedimento del “correlativo oggettivo” è esemplarmente applicato in questa lirica del 1923, che apparentemente è la distaccata osservazione d’un fenomeno, in sé, trascurabile, che tuttavia nel contesto più ampio degli Ossi di seppia diventa un emblema di destino umano. Sul vetro tremulo d’una vasca si specchia il riso d’un fiore, la belladonna, e poi il cielo, le nuvole. Ad un tratto un sasso rompe la spera luminosa, dissipa l’immagine riflessa. Balugina una nuova immagine, che però non giunge a delinearsi, ma si perde sul fondo. Morta un’immagine, rifattasi la calma sulla spera, dovrebbe formarsene un’altra; ma il poeta ferma il tempo e la vicenda al tentativo di consolidarsi, di questa, la rigetta arbitrariamente, sul fondo. E allora tutto il significato viene rimesso in discussione. Il riso di belladonna è forse una promessa d’amore frustata, che lascia l’animo in una desolazione che impedisce un ulteriore avanzare e consistere della persona, la rigetta nel regno di quelli che Montale chiama i nati – morti, cioè gli uomini senza più personalità né prospettive; i “sargassi” umani che ritroviamo in Arsenio, o gli “uomini vuoti” di T.S. Eliot, prodotti da una civiltà che ha rinunciato alle ragioni profonde della vita, ossia ai valori, agli ideali. La lirica, insomma, cela così, e al tempo stesso rivela, una crisi che, staccata dalla persona del poeta e riflessa nel “correlativo oggettivo”, acquista un significato più ampio, allude alla crisi d’identità dell’uomo moderno.