Ossi di seppia: poetica e tematiche. (raccolta di poesie di Eugenio Montale)

La raccolta fu pubblicata nel 1925 da Pietro Gobetti, alle cui riviste Montale collaborava, condividendone l’impegno etico – politico di fondazione d’una cultura non provinciale, moderna e democratica. In effetti il libro, che è stato definito un “romanzo filosofico”, appare coinvolto nel dibattito ideologico del tempo, da Schopenhauer a Bergson al contingentismo di Boutroux. Ma è una filosofia tutta risolta in immagini che manifestano uno scavo personale del poeta, un complesso di faticati approdi conoscitivi. Montale accoglie il tema crepuscolare e palazzeschiano d’una poesia “dissacrata”, costretta a piegare sull’umile, sul quotidiano per ritrovare una possibilità di sopravvivenza in un modo alienato e ostile. A questo tema congiunge la superstite nostalgia d’una fusione con la natura, presentita nell’adolescenza, la delusione e il rimpianto della perduta armonia con le cose, e l’idea della poesia come superstite dignità. D’altra parte la coscienza della condizione umana presente, che diviene per lui quella di sempre, lo porta ad ammettere l’impossibilità per la poesia di offrire un alto messaggio di vita; donde la necessità che essa avverte di ripiegare su una testimonianza senza illusioni; anche se balena nel libro qualche momento fugace di speranza, come in Riviere, di sognata possibilità di ristabilire il colloquio perduto con la natura – vita. Il libro ha così una sua dialettica interna. Da un lato vi è la confessione d’impotenza, dell’incapacità del poeta di cogliere e rappresentare la vita nella sua autenticità: e allora lo scacco conoscitivo si fonde con quello espressivo, creando il mito d’un “ritmo stento” d’una poesia sempre inadeguata all’oggetto: di parole “petrose” che colgono la delusione e l’aspro tormento del vivere e oscillano fra volontà di canto e prosaicità. Dall’altro vi sono i brevi momenti di grazia, in cui la natura appare vicina a svelare un significato e gli oggetti si delineano nitidi, alludendo, nel contempo, alla possibile identificazione armonica fra uomo e mondo. Più in generale si può dire che la scoperta inautenticità dell’esistere è incentivo alla ricerca d’un riscatto poetico. Questo, tuttavia, permane pur sempre difficile ed episodico, richiede prima il passaggio per il cammino impervio della negazione, il riconoscimento della crisi etico – conoscitiva dell’uomo moderno. Prevale, in sostanza, nel libro, la coscienza della realtà come insondabile e incomprensibile, assimilabile, per questo, a una sorta di “solido nulla” leopardiano. Gli eventi e i gesti umani si rivelano dominati dal caso, la natura priva d’ogni razionalità, l’uomo sperduto nel caos della contingenza. In questa visione pessimistica si volle, più tardi vedere una reazione all’atmosfera oppressiva del fascismo. Ma tale motivazione non è convincente: la visione tragica monta liana è anteriore storicamente, e va messa in relazione, se mai, con una crisi ideologica e storica non solo italiana: Con la vicenda, cioè, di guerre e violenze, di civiltà alienata e alienante denunciata, allora, da altri scrittori, a cominciare da T.S. Eliot, la cui Terra desolata uscì nel ’22. Come attestano i componimenti usciti dopo la prima edizione degli Ossi, e compresi poi nella seconda (1928), I morti, Delta, Incontro, Vento e bandiere, Fuscello teso dal muro e Arsenio(che è del 1927), il pessimismo aumenta nella seconda edizione del libro, sovvertendo il primo finale, la lirica Riviere, in cui poteva balenare una speranza di riscatto, e rendendo, di fatto, dominante il tema della scoperta del “male del vivere”, della vita come seguito di atti privi di significato. La testimonianza poetica diviene sempre più l’unico tentativo di salvezza per l’uomo, che non riesce tuttavia a infrangere la cadenza ferrea d’un destino di vanificazione. Eppure proprio su questo sfondo nichilistico, fra il vuoto sempre incombente del non essere o dell’assenza e una sognata identificazione con a natura che significherebbe anch’essa una dissolvenza dell’individuo, gli oggetti della poesia monta liana acquistano una singolare intensità. Si è più volte parlato di paesaggi aridi e scabri degli Ossi, mettendoli in relazione col paesaggio ligure, sia con quello reale, sia con quello cantato dai poeti liguri coevi. Ma converrà piuttosto parlare di un originale creazione monta liana, d’un paesaggio che riflette e incarna una visione del mondo, d’una terra desolata e d’un dramma esistenziale che presenta analogie con la coeva cultura letteraria europea.

STRUTTURA

Ossi di seppia comprende ventitré liriche, raccolte in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Alcuni critici (ad esempio Mengaldo) hanno notato, nella struttura delle raccolte montaliane, un alternarsi di serie di liriche brevi e di testi più diffusi. Questo negli Ossi vale relativamente: più che di un susseguirsi di forme definite, si potrebbe parlare di un alternarsi musicale di movimenti più distesi e meditativi (come l'”adagio” di una sonata) e di sprazzi fulminei di immagini simboliche (come il “presto” o lo “scherzo”).

Metrica di Ossi di Seppia

Il tempo in cui furono scritti gli Ossi di seppia fu quello di futuristi e vociani, con la rottura del ritmo, della forma, della stessa struttura sintattica nei suoi componenti elementari. L’apparente distacco di Montale dagli eventi esterni – apparente in quanto egli seppe fare i conti con essi, trasformandoli alla luce delle proprie esigenze – si traduce in questa raccolta in una consapevole e misurata ricostruzione del verso nella sua forma “classica”. Montale sembra dirci che una poetica che abbia come oggetto la disgregazione del senso e della vita può servirsi con più utilità, per raggiungere i suoi scopi, di una forma chiara e semplice nella sua rigorosità costruttiva. Si può notare in questa preferenza per lo stile classico del verso un parallelo con l’atteggiamento dannunziano, che va tuttavia distinto: in D’Annunzio il recupero del passato è funzionale ad un “messaggio” ideologico, ad un “programma” poetico che intende agganciare un’idea di cultura già presente nella memoria storica con il suo bagaglio di simboli e significati. Nel nostro, il classico è uno strumento linguistico-formale, al contrario dello sperimentalismo delle avanguardie. Si è infatti talvolta paragonata la struttura ritmica degli Ossi di seppia a quella delle Myricae di Pascoli.
La semplice classicità di Montale è arricchita dall’uso della musicalità della lingua: rime, assonanze e consonanze, nonché l’uso raffinato della sintassi poetica, e altri effetti sonori.

Stile e linguaggio

Da Wikipedia

Nella lingua di Montale ritroviamo musica e pittura, e in buona misura la lingua di Dante, di D’Annunzio e di Pascoli. Il “dantismo” di Montale è generalmente considerato un fenomeno unico nel Novecento italiano per intensità e attualizzazione delle situazioni: la lingua pietrosa e aspra e il fascino della condizione umana “infernali” hanno trovato in Montale una eco di grande forza. Come per le scelte metriche della raccolta, anche le citazioni non hanno lo scopo di istituire un collegamento con un passato idealizzato – quasi una sorta di passaggio di testimone tra poeti “incoronati” -, ma quello puramente strumentale di arricchire la lingua di apporti espressivi, anche se la citazione di un classico trascina sempre con sé i risvolti profondi del suo mondo di riferimento (Meriggiare).
Invece la lezione di Pascoli, perfettamente assorbita da Montale, fu la scelta di una terminologia esatta e specifica, soprattutto per gli elementi della flora e della fauna: la scientificità di una lingua trasformata in lente di ingrandimento per tutto ciò che è piccolo e comune, così comune da non avere nome (almeno in letteratura); il senso di una natura ostile e minacciosa; un certo “impressionismo interiore” (Mengaldo) caratterizzato dall’associazione quasi sinestesica tra eventi naturali e situazioni emotive (Mediterraneo, Scendendo qualche volta). A D’Annunzio, infine, va ricondotta – come già detto – la ricerca metrico-ritmica, e il gusto per l’invenzione delle parole, che si può far risalire al rapporto privilegiato con la natura, in alcuni momenti deformata allo sguardo del poeta dalla sua stessa forza vitale – non più positiva come in Alcyone ma negativa.
Esiste un nesso tra l'”aura” fenomenologica della poetica degli Ossi di seppia e le scelte linguistiche del loro autore; seguendo la lezione critica di Pier Vincenzo Mengaldo[2], così si individua:

l’uso di parole rare non per la loro forma, ma per il loro ricorrere una volta sola in tutta la raccolta – in tal senso l’unicità oggettiva di ogni cosa è definitivamente marcata da un suo segno linguistico irripetibile;
la scelta di singole parole “letterarie” (soprattutto dantesche e dannunziane) private di un contesto riconoscibile, tale che il lettore possa subito vedere in trasparenza la loro origine, trasforma anch’esse in elementi espressionistici utili a marcare la rarità delle cose, più che delle parole;
L’uso di una terminologia precisa impedisce il crearsi di qualsiasi alone simbolico attorno alle parole: più che evocare qualcos’altro, la parola di Montale “rimbalza” sul lettore come una domanda che non ha ricevuto risposta.

Il soggettivismo linguistico di Montale (che consiste in una assoluta libertà di scelta nel repertorio lessicale – dalla lingua storica a quella scientifica) diviene così strumento per denotare le cose di una forte oggettività.